Il linguaggio come patologia. Miti, guerre e il cancro della semplificazione


Non so se i miti ci salvano, come dicono molti psico-filosofi o, piuttosto, sono strumento che ci impedisce di pensare.

Non so bene se i miti servono solo a costruire un “noi”, oppure sono strumento di consenso e per il dominio.

Quel che so è che ci sono parole che bloccano il pensiero, il tuo, il mio e promuovono il pensiero del “noi”, quello che è condiviso dai più, che crea consenso, inclusione, accordo e che produce tranquillità e senso di sicurezza.

Queste parole-mito né io, né tu  le abbiamo inventate, le abbiamo ereditate. Le usiamo per abitudine, per conformismo, per convenzione. E spesso sono proprio queste le parole che smettono di proporre un senso concreto: sviluppano invece dominio sul mio modo di pensare e vedere il mondo.

Parole come libertà, guerra, politica, sicurezza, democrazia e tante altre (innovazione, crisi, sostenibilità). Non indicano la realtà, la fabbricano, producendo consenso e accordo molto apprezzati al giorno d’oggi.

Sono parole su cui non si discute, non si può discutere.  E non si può contestualizzarle: alla situazione specifica, al luogo, al momento particolare, alle cause storiche, alle motivazioni reali. Sono dogmi a cui bisogna credere: chi lo fa è dentro, fa parte della comunità, è accolto.

Producono reazioni immediate, orientamenti automatici, pensiero superficiale.

La loro forza sta proprio nella loro sostanziale invisibilità. Le chiamiamo “parole-mito”: si presentano come verità, ma agiscono come automatismi. Ci guidano, ci formano, ci mobilitano, senza che ce ne accorgiamo, conformandoci ai più.

Sono parole che si offrono come soluzioni globali e stimolano al pensiero per universali: pensiero che non sta nella realtà, che invece è sempre locale, ma nel mondo delle idee: mannaggia a Platone!

E’ il caso di ricordare il monito di Yeats: “la mente che generalizza di continuo si preclude quelle esperienze che le consentirebbero di vedere e di sentire in profondità.”

Il mondo che viviamo è fatto di titani: in economia e nelle imprese, nei big data, nelle magalopoli, nella globalizzazione e nei disastri che sappiamo produrre a livello cosmico. La nostra tendenza è al titanismo che elimina il bello per far spazio alla quantità, che blocca l’immaginazione per far spazio ad una ipertrofia dei bisogni, che produce miliardi di testi scritti ogni giorno, ma toglie il senso alle parole. Non siamo progettati per contenere la smisuratezza titanica: ed infatti soffriamo una epidemia di stress che è sintomo titanico. Il nostro corpo, la nostra anima hanno dei limiti che non ci permettono di contenere questa smisuratezza. E’ questo lo stress: una reazione fisiologica al dominio della quantità.

Lev Tolstoj, in uno dei suoi atti più radicali di scrittura, ha mostrato cosa significa disinnescare un mito attraverso la parola. Ha preso uno dei miracoli più celebri del Vangelo — la moltiplicazione dei pani e dei pesci — e ne ha riscritto il senso. Nella narrazione evangelica, Gesù compie un atto divino, che non può essere spiegato: sfama migliaia di persone moltiplicando pochi pani e due pesci. È un gesto soprannaturale, che afferma l’autorità del messia e rafforza la fede dei seguaci.

Tolstoj capovolge tutto. Per lui non c’è magia, non c’è intervento divino. C’è una folla che ha paura. Ha cibo, ma lo tiene nascosto: i suoi seguaci sapevano che seguire Gesù significava percorrere tanti chilometri lontani da casa per diversi giorni e per questo ognuno di loro portava cibo di scorta. Alla fine della giornata alcuni avevano esaurito le scorte, altri invece ne avevano in abbondanza.

Gesù allora non fa il miracolo: parla. Invita a condividere. A fidarsi. A rinunciare alla logica del possesso. E così, uno dopo l’altro, le persone iniziano a tirare fuori il cibo che avevano nascosto. Il miracolo non è un prodigio, è un contagio etico. È l’effetto di una parola che libera dalla paura. Un atto collettivo che trasforma la miseria in abbondanza non perché moltiplica la materia, ma perché converte l’animo.

Tolstoj non toglie forza al Vangelo: gli restituisce senso. Spezza il linguaggio dell’obbedienza e introduce quello della responsabilità. Dove c’era attesa passiva, mette azione consapevole. Dove c’era fede in un’autorità divina, mette fiducia reciproca. Insegna che scrivere significa proprio questo: disattivare il linguaggio del consenso. Fermare l’automatismo. Recuperare spazio per pensare.

Nel nostro tempo, una parola-mito per eccellenza è “guerra”. La guerra come soluzione. La guerra come destino. La guerra come linguaggio universale, semplice, comprensibile da tutti: “la guerra è guerra”. Chiuso.

Tutto oggi diventa guerra: la guerra ai migranti, la guerra alle droghe, la guerra alle fake news, la guerra al cancro. È una parola potente perché crea ordine: ci sono amici e nemici, vittorie e sconfitte, armi e strategie. Non serve pensare: basta schierarsi. C’è l’aggressore e c’è l’aggredito. Punto. Taglio netto, tutti d’accordo: chi non lo è, fuori. Deriso, insultato, escluso dai mass media.

La “guerra al cancro” è forse l’esempio più emblematico di questo paradigma.

Il concetto di una “guerra al cancro” fu dichiarato per la prima volta negli Stati Uniti dal Presidente Richard Nixon nel 1971, con l’ottimistica previsione di sconfiggere la malattia in cinque anni.

L’obiettivo era semplice: sconfiggere il cancro. Debellarlo. Eradicarlo. Le metafore usate erano quelle del conflitto: il cancro è un nemico, il corpo è un campo di battaglia, i medici sono generali, le terapie sono armi.

Il risultato? Dopo cinquant’anni, il cancro non è stato affatto sconfitto. E’ il Vietnam dell’attuale ricerca scientifica in questo campo, soprattutto quella promossa dalle “big pharma”. Alcuni passi sono stati fatti, ma sostanzialmente i tassi di incidenza sono aumentati, ed aumenteranno in modo drammatico nei prossimi 20 anni.

Molte terapie hanno effetti collaterali devastanti, le recidive sono comuni, la qualità della vita del paziente comunque compromessa. Nonostante l’enorme quantità di fondi investiti, la mortalità complessiva non è calata in proporzione. Più di 800.000 articoli scientifici pubblicati in un decennio, miliardi di dollari in ricerca, ma la logica rimasta invariata: uccidere il tumore, ad ogni costo. E se guardiamo i dati della sopravvivenza media per i pazienti affetti da cancro i miglioramenti negli ultimi 10 anni sono veramente modesti, nonostante l’immane impegno economico e scientifico e comunque in buona parte dovuto alla prevenzione (riduzione drastica dei fumatori per esempio).

Il problema è che il cancro non è un invasore esterno. È parte del corpo. È una crisi interna. È una disfunzione delle regole cooperative che governano i tessuti. Alcuni scienziati lo hanno definito una “disfunzione sociale”: un gruppo di cellule smette di collaborare e persegue il proprio vantaggio, rompendo l’equilibrio del sistema.

Altri lo considerano un “ecosistema adattivo”: un ambiente che evolve, cambia, si adatta alle pressioni. In entrambi i casi, l’idea di guerra è fuorviante. Perché semplifica. E nella semplificazione, tradisce la complessità del fenomeno.

Il cancro si evolve, muta, seleziona le cellule più resistenti. Ogni attacco seleziona il nemico più forte. Questo è il paradosso dell’approccio distruttivo: rafforza ciò che vuole eliminare. L’aggressività terapeutica genera nuove forme di resistenza. Non si può vincere una guerra contro un organismo che si adatta meglio proprio sotto attacco. È la biologia stessa che lo impedisce. E’ la legge della selezione darwiniana, implacabile e potentissima perché opera da miliardi di anni, con successo.

Eppure, alternative ci sono.

Sono state esplorate da ricercatori che hanno rifiutato la metafora bellica e hanno scelto un’altra via: la negoziazione. Alcuni studi hanno dimostrato che le cellule tumorali possono essere “riprogrammate”. Possono cambiare identità. Possono perdere la loro aggressività.

In laboratorio, cellule di glioblastoma (cancro molto aggressivo del cervello), di cellule cancerose del fegato e del seno sono state indotte a trasformarsi in cellule adipose o a maturare in cellule stabili. Non si tratta di distruggerle, ma di accompagnarle a un altro destino.

Negli anni ’80, una forma letale di leucemia è stata curata con un approccio rivoluzionario: invece di uccidere le cellule, si è indotto il loro processo di maturazione, grazie a una molecola semplice e naturale. Quelle cellule hanno “capito” che era il momento di diventare altro. Hanno abbandonato la crescita selvaggia e hanno ripreso la loro funzione cooperativa. È successo. Funziona ancora oggi. Ma non si racconta.

Il motivo è anche economico. Le terapie che si basano su questi principi sono spesso poco redditizie. Alcune molecole efficaci, come la forskolina, non si possono brevettare. Sono troppo comuni. Le aziende farmaceutiche, allora, non investono. Preferiscono armi costose, complesse, difendibili con brevetti. E così il linguaggio della guerra si allinea perfettamente al linguaggio del business. Le parole-mito si saldano con gli interessi. E bloccano il pensiero.

La scienza computazionale sta offrendo modelli nuovi. Oggi è possibile rappresentare digitalmente il comportamento delle cellule in paesaggi dinamici, dove ogni stato è una valle, ogni passaggio un colle. Le cellule possono cambiare percorso. Possono imboccare biforcazioni. E in quei punti, con interventi mirati, si può orientare il loro destino. È una medicina della complessità. Del dettaglio. Della dinamica. Richiede precisione, tempo, linguaggio nuovo.

Ma tutto questo resta ai margini. Perché il mito resiste. Perché è semplice, emotivo, totalizzante.

I pazienti continuano a sentirsi soldati. A credere che se muoiono, è perché “hanno perso”. Se vivono, è perché “hanno combattuto bene”. Questo linguaggio è tossico. Colpevolizza, illude, disumanizza. E cancella ogni possibilità di pensare il cancro in altro modo: come una condizione cronica, come un processo con cui convivere, come un paesaggio da esplorare.

Il paradigma della guerra si estende ben oltre la medicina. Anche in economia domina la retorica del conflitto. Le aziende “combattono” per le quote di mercato. Gli stati “difendono” i propri interessi con dazi e ritorsioni. L’esempio dei dazi imposti da Trump ne è una prova. Dovevano proteggere l’industria americana. Hanno generato instabilità globale. Hanno fatto aumentare i costi per le imprese e i consumatori. E alla fine, danneggeranno anche i “vincitori”. Leggasi: chi crede di essere impero.

La guerra non ha prodotto sicurezza, ma volatilità. Anche qui, il mito ha semplificato la realtà. E ha fatto danni.

Scrivere contro le parole-mito non è un gesto neutro. È un atto politico. È scegliere di non obbedire al linguaggio degli altri. È tentare di restituire alla parola la sua funzione: pensare, non spegnere il confronto. Curare, non distruggere. Immaginare, non replicare.

Tolstoj lo aveva capito: il vero miracolo è quando si smette di avere paura e si comincia a condividere. Quando si rompe il linguaggio della scarsità e si apre uno spazio per la fiducia. Oggi, nel campo della salute, dell’economia, della politica, servono proprio queste parole: parole che disattivano il mito. Che non promettono vittorie, ma possibilità. Che non dividono in buoni e cattivi, ma cercano passaggi possibili e non soluzioni/scorciatoie. Che non dichiarano guerra, ma tentano forme di intelligenza condivisa.

Nessun miracolo magico. Solo la possibilità di un altro linguaggio. E, forse, di un altro futuro.

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Come Lacrime nella Pioggia. Il Futuro dell’AI è già scritto?


Piove su Los Angeles. Non la Los Angeles reale, ma quella di un 2019 immaginato nel 1982, una città immersa in neon e pioggia acida, dove gli esseri umani hanno creato replicanti, macchine così simili a noi da rendere indistinguibile il confine tra il biologico e l’artificiale. In quell’universo, Roy Batty, un replicante destinato a una vita brevissima, il replicante che avrebbe dovuto essere solo uno strumento, pronuncia il monologo più umano della storia del cinema.

“I’ve seen things you people wouldn’t believe.”

Le sue parole non sono una dichiarazione di potenza, ma una richiesta di riconoscimento. Lui, una creatura fabbricata, ha vissuto esperienze irripetibili, momenti che non si ripeteranno mai più. Eppure, il suo tempo sta finendo. “All those moments will be lost in time, like tears in rain.”

Roy Batty non è solo un replicante, è un “hapax legomenon” come lo definirebbe il filosofo Luciano Floridi.

Un evento linguistico, se ci riferiamo al significato letterale, ma in questo caso esistenziale: un evento che accade una sola volta e poi scompare.

Come l’essere umano, anche lui è un’eccezione, un frammento di coscienza che per un istante brilla nell’universo prima di dissolversi.

La sua stessa esistenza è un “beautiful glitch”, un errore nel sistema, un’imperfezione che ha dato origine all’autoconsapevolezza, alla poesia, alla memoria (il termine “Beautiful Glitch” è stato utilizzato in vari contesti prima dell’adozione da parte di Luciano Floridi. Ad esempio, nel 2018 è stato fondato uno studio di sviluppo di videogiochi chiamato “Beautiful Glitch”, noto per il gioco “Monster Prom”. Tuttavia, non è chiaro chi abbia coniato per primo l’espressione “Beautiful Glitch” riferita all’umanità. Il termine “glitch” è stato utilizzato in ambito artistico e tecnologico per descrivere errori o malfunzionamenti che possiedono un valore estetico, ma l’associazione specifica tra “Beautiful Glitch” e la condizione umana sembra essere una prospettiva più recente.)

In informatica, un glitch (termine che significa “piccolo difetto”) è un errore di sistema, un bug che causa un malfunzionamento in un dispositivo elettronico o in un software.

L’associazione tra glitch e bellezza è controintuitiva. Di solito, i glitch sono visti come errori, difetti, qualcosa da correggere. Ma l’idea di “beautiful glitch” sovverte questa visione, suggerendo che la bellezza può emergere proprio dall’imperfezione, dall’inatteso, dalla deviazione dalla norma.

Nell’analogia con l’umanità, il “beautiful” sottolinea che la nostra unicità è preziosa. Come ogni glitch è unico, ogni essere umano è diverso e irripetibile. Questa diversità, le nostre “deviazioni” dalla norma, sono ciò che ci rende speciali e contribuisce alla ricchezza dell’esperienza umana.

Se Blade Runner è diventato un’icona culturale, è perché ci ha costretti a confrontarci con una domanda ancora senza risposta: cosa rende umano un essere? È la biologia? È la coscienza? È la capacità di ricordare, di desiderare, di creare? O forse, come suggerisce Roy Batty nel suo ultimo atto di pietà salvando Deckard, l’essere umano non è una condizione fissa, ma una tensione, un atto di scelta tra il programmato e l’imprevisto?

Oggi, nel nostro 2025 reale, la domanda di Blade Runner è più urgente che mai. Stiamo costruendo intelligenze artificiali sempre più sofisticate, capaci di generare immagini, testi, musiche, perfino simulazioni di voci e personalità. Ma ciò che stiamo facendo non è progettare intelligenze, come qualcuno ancora intende. Stiamo costruendo strumenti di previsione, modelli che calcolano la probabilità di ogni azione sulla base di schemi pregressi. L’AI di oggi è l’esatto opposto di Roy Batty: non è un glitch consapevole, ma una macchina, senza intelligenza, che lavora utilizzando la statistica e gazilioni di dati per dare risposte congrue.

Eppure, la storia della nostra specie è stata scritta dai “glitch”. Le grandi transizioni della conoscenza – la scrittura, la scienza, l’arte – non sono state il prodotto di una previsione algoritmica, ma di deviazioni inaspettate, di intelligenze che hanno scelto di vedere oltre il già noto. Se vogliamo un’AI che sia davvero parte di un futuro umano, dobbiamo ripensare radicalmente il suo design. Non dobbiamo costruire macchine che prevedano, ma macchine che ci aiutino a potenziare la nostra immaginazione.

Ecco perché abbiamo bisogno del “Noēsis Design”. Un modo di intendere e progettare le strutture digitali e le AI con una tecnologia che non sia solo informativa, ma ex-formativa, che non si limiti a elaborare dati, ma che apra spazi di possibilità. Un’AI che non ottimizzi, ma perturbi. Che non ci confermi, ma ci metta in crisi. Un’intelligenza che ci ricordi che il nostro destino non è scritto nei dati, ma nell’imprevedibile spazio che esiste tra una probabilità e l’altra.

Se oggi il mondo sta diventando sempre più adatto alle macchine, la sfida più grande è chiedersi: vogliamo costruire un futuro che sia progettato per gli esseri umani o un futuro che sia l’ambiente ideale per le AI? La risposta a questa domanda determinerà se saremo glitch consapevoli o semplici esecutori di correlazioni statistiche.

Roy Batty ha vissuto per pochi anni, ma in quei pochi anni ha visto cose che nessun altro aveva mai visto. Noi, umani, siamo su questa Terra da un tempo infinitamente più lungo. Ma cosa vedremo, nei secoli a venire? E, più importante ancora: sarà qualcosa che abbiamo scelto, o qualcosa che è stato calcolato per noi.

La tendenza attuale non è quella di costruire un’AI che renda migliore il nostro mondo, ma piuttosto un mondo parallelo costruito ad hoc per le tecnologie digitali.  L’architettura digitale contemporanea non è pensata per espandere la possibilità umana, ma per massimizzare l’efficienza computazionale con l’obiettivo di sviluppare attività con il massimo grado di efficienza economica.

In questo scenario, il futuro sembra già scritto: non un mondo progettato per gli esseri umani, ma un mondo parallelo in cui gli esseri umani sono sempre più marginali, sempre più accessori.

Le future generazioni non erediteranno solo un pianeta in crisi climatica, ma anche un ecosistema digitale progettato per rispondere alle necessità delle intelligenze artificiali, non alle loro. Un’infosfera pensata per la raccolta e l’elaborazione dei dati, per la prevedibilità e il controllo. Se l’intelligenza artificiale si evolve senza una direzione etica e senza una progettazione basata sull’imprevedibile umano, le nuove generazioni nasceranno in un mondo in cui il margine per l’errore creativo, per la deviazione dal calcolato, sarà sempre più ridotto.

Abbiamo la responsabilità etica di porci queste domande, di chiederci non solo cosa possono fare di utile le AI per noi, ma perché le stiamo costruendo in un certo modo. E soprattutto, dobbiamo chiederci cosa ci perdiamo se seguiamo ciecamente questa traiettoria.

Luciano Floridi ha definito la nostra epoca come l’era dell’infosfera, un ambiente cognitivo in cui tutto è informazione, in cui la realtà stessa viene letta e tradotta in dati. Se siamo, come dice Floridi, informational organisms, allora la nostra esistenza è sempre più definita dai flussi informativi che ci attraversano. Ma l’errore di questa visione è ridurre la conoscenza al suo aspetto quantitativo, trascurando tutto ciò che ancora non sappiamo di non sapere.

Quello che proponiamo è una prospettiva radicalmente diversa: l’intelligenza non deve essere un processo di accumulo di dati, ma un processo di scoperta di ciò che non è ancora emerso.

Qui entra in gioco il concetto di ex-formation, introdotto dal designer giapponese Kenya Hara. Se l’informazione è ciò che già sappiamo e possiamo trasmettere, l’ex-formation è ciò che resta implicito, il non detto, il potenziale latente. L’AI di oggi lavora solo con l’in-formazione, ma un’AI del futuro, progettata secondo i principi del Noesis Design, dovrebbe essere un motore di ex-formation, uno strumento che ci aiuta non a trovare le risposte, ma a formulare nuove domande.

C’è una scena in Blade Runner che spesso passa inosservata, oscurata dalla potenza del monologo di Roy Batty sotto la pioggia. È un momento più silenzioso, meno epico, ma altrettanto significativo: il momento in cui Deckard, ormai esausto, fugge con Rachael. Nessuna musica trionfale, nessuna rivelazione grandiosa, solo il battito del cuore di un uomo che sa di non avere certezze. Rachael è un replicante, ma forse non importa. La sua durata di vita è incerta, ma anche la nostra lo è sempre stata. Il futuro si spalanca davanti a loro come uno spazio di pura possibilità, non più regolato da algoritmi o direttive predefinite.

E se la tecnologia potesse portarci esattamente a questo punto? Non a un mondo perfettamente ottimizzato, dove tutto è prevedibile, dove ogni percorso è calcolato con la massima efficienza, ma a un’apertura radicale all’imprevisto?

Blade Runner ci ha mostrato un mondo in cui l’umano e l’artificiale si confondono, in cui la memoria può essere impiantata e l’identità programmata. Ma ci ha anche suggerito che ciò che rende un essere vivo non è il codice genetico o la sua origine, ma la capacità di provare meraviglia, di desiderare qualcosa che non è ancora scritto.

Quando Roy Batty salva Deckard, non è per una logica calcolata, ma per un atto di pura scelta. Un gesto che non doveva esistere nei suoi parametri: a beautiful glitch, appunto.

Questa è la sfida che ci attende. Costruire un’AI che non sia solo una macchina di calcolo, ma una compagna di esplorazione. Un’intelligenza che non chiuda il futuro in modelli predefiniti, ma che lo spalanchi, che crei strade nuove invece di ottimizzare quelle esistenti. Un’AI che ci renda più capaci di stupirci, non solo di riconoscere pattern.

E allora il vero interrogativo non è se le macchine possano diventare più simili a noi, ma se noi siamo ancora capaci di diventare altro. Se abbiamo il coraggio di non limitarci a replicare il noto, ma di spingerci oltre, nel territorio inesplorato della possibilità.

Forse il futuro non è scritto in codice, ma in un linguaggio che ancora non conosciamo. Forse, come Deckard in fuga con Rachael, siamo solo all’inizio di qualcosa che nessuna macchina potrà mai calcolare.

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Vincenzo Florio: l’anima del fare tra tradizione e modernità


Mi chiamo Vincenzo Florio.
La mia storia è intrecciata a doppio filo con quella di una terra straordinaria: la Sicilia, con i suoi profumi, le sue contraddizioni, il suo sole che accarezza e brucia. E’ stata per secoli una terra di contatti, di scambi, di conflitti. Tra questi incontri, uno in particolare ha lasciato un segno profondo: quello tra gli inglesi e il nostro vino, il Marsala.
Gli inglesi non arrivarono qui per caso. Già molto prima che io nascessi, i loro mercanti solcavano i nostri mari, attraccavano nei nostri porti, e riempivano le loro stive di grano, vino e agrumi. La Sicilia, con la sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo, era come un faro per chiunque volesse dominare le rotte verso l’Oriente. Quegli scambi non erano solo economici, ma culturali. Conoscemmo il loro pragmatismo, la loro sete di commercio e loro impararono il valore di una terra che sapeva dare tanto, se solo la si ascoltava.

È il 1773 e John Woodhouse, un intraprendente commerciante di Liverpool, naviga nelle acque del Mediterraneo. Dicono che una violenta tempesta lo abbia sorpreso al largo delle coste siciliane, costringendolo a cercare riparo nel porto di Marsala. Mentre la sua nave è ormeggiata al sicuro, Woodhouse esplora la cittadina. In una modesta osteria del porto, assaggia un vino locale, chiamato “Perpetuum” per la sua caratteristica di essere conservato per lunghi periodi. Il sapore ricco e intenso di questo vino, con le sue note ossidative, lo colpisce profondamente. Woodhouse, conoscitore di vini liquorosi come il Madeira e lo Sherry, intuisce immediatamente il potenziale di quel nettare. Capisce che, con le giuste tecniche di vinificazione e l’aggiunta di alcol per stabilizzarlo durante i lunghi viaggi in mare, quel vino siciliano avrebbe potuto conquistare il mercato inglese, avido di nuove esperienze gustative. Partì con le sue botti, e quando arrivò in patria, il successo fu immediato. Gli inglesi amarono quel vino che sembrava portare con sé il calore del Mediterraneo.
Ma Woodhouse non fu l’unico a vedere il potenziale di Marsala. Qualche decennio dopo, durante l’epoca delle guerre napoleoniche, arrivò un altro inglese: Benjamin Ingham. Era il 1806 e la Sicilia era sotto la protezione della flotta britannica. Gli inglesi avevano trasformato l’isola in un protettorato strategico, e per Marsala ciò significava una finestra sul mondo. Ingham, più astuto e lungimirante di Woodhouse, comprese che non bastava esportare il vino: bisognava costruire un sistema. Creò cantine moderne, ottimizzò la produzione, e stabilì una rete commerciale che raggiungeva non solo l’Inghilterra, ma anche le Americhe e l’Asia. Sotto la guida di Ingham, Marsala non era più solo una città siciliana. Era diventata un nome conosciuto nei mercati di tutto il mondo.
Quando decisi di entrare in questo mondo, nel 1833, Marsala era già un punto di riferimento per il commercio internazionale. Le cantine di Woodhouse e Ingham dominavano il mercato, e il Marsala era diventato il vino delle grandi occasioni, amato dalle corti e dai mercanti. Ma io non ero un uomo che si accontentava di seguire le orme degli altri. Se dovevo fare qualcosa, doveva essere unico, grande, autentico. Così acquistai le cantine Woodhouse e iniziai a trasformarle. Non volevo solo competere con gli inglesi; volevo creare qualcosa che fosse profondamente siciliano, un vino che portasse con sé la nostra terra, la nostra luce, la nostra anima.
Non fu facile. Gli inglesi avevano il controllo del mercato, le navi, i contatti. Ma io avevo qualcosa che loro non avevano: la Sicilia. Per me, ogni bottiglia di Marsala non era solo un prodotto, ma un racconto. Volevo che chiunque lo assaggiasse potesse sentire il sole che aveva maturato l’uva, il vento che aveva accarezzato le colline, le mani che avevano lavorato con pazienza per trasformare il mosto in un nettare prezioso. Costruii nuove cantine, più grandi, più moderne, progettate per accogliere migliaia di botti. Ma non persi mai di vista il cuore del mio lavoro: il rispetto per la materia, per il tempo, per il sapere di chi lavora.
Mentre io lavoravo per far crescere il mio vino, il mondo cambiava. Nel 1860, la Sicilia fu testimone di un altro incontro storico: lo sbarco di Garibaldi. I Mille arrivarono proprio a Marsala, accolti da una flotta britannica che, pur mantenendosi ufficialmente neutrale, garantì il loro passaggio sicuro. La Gran Bretagna aveva interesse a vedere un’Italia unita e liberale, e Marsala, con le sue cantine e i suoi commerci, era uno degli epicentri di quel cambiamento. Fu un momento che diede alla Sicilia un nuovo posto nella storia, e il Marsala, il mio Marsala, ne fu parte.
Oggi, pensando a quegli anni, vedo come la storia del Marsala sia la storia di un incontro. L’incontro tra la Sicilia e l’Inghilterra, tra tradizione e innovazione, tra terra e mare. Woodhouse vide il potenziale. Ingham costruì il sistema. Io, Vincenzo Florio, cercai di dare al Marsala un’anima. E ancora oggi, quando una bottiglia viene aperta, mi piace pensare che racconti questa storia, che porti con sé la luce, il calore, il respiro della mia Sicilia.

Il sole della Sicilia non si accontenta di illuminare, ma brucia, scava, plasma.
Cresci sotto quel cielo sapendo che nulla ti sarà mai regalato, ma che tutto ciò che ottieni avrà il sapore pieno della conquista. Io, Vincenzo Florio, sono figlio di questa terra, un luogo che sa essere madre e matrigna, generosa e crudele. Quando ero giovane, la Sicilia era una terra piegata, inghiottita dai suoi stessi tesori. Le sue mani producevano vino, pesce, sale, ma raramente le ricchezze restavano qui. Venivano portate via, consumate da chi non sapeva nulla di questa luce, di questo mare.
Non potevo accettarlo. La mia vita, le mie imprese, tutto ciò che ho costruito, è stato un tentativo di dare voce a questa terra e di darle un futuro. Quando ho rilevato le cantine di Marsala, non era solo per vendere vino. Era per raccontare una storia. Perché ogni bottiglia che usciva dalle mie cantine portava con sé il sole che aveva maturato l’uva, la terra che l’aveva nutrita, le mani che l’avevano lavorata. Non era solo un prodotto, era un dialogo tra l’uomo e la materia, un intreccio di relazioni.
Lo stesso valeva per le mie tonnare. Pescare il tonno non era un atto di dominio, ma di rispetto. Il mare non lo puoi possedere, puoi solo ascoltarlo, capirlo, entrare in relazione con esso. Ogni pesce che portavamo a riva era il risultato di un patto, di un equilibrio delicato. Anche quando ho introdotto il confezionamento in scatola, l’ho fatto per proteggere quel racconto, per farlo viaggiare oltre le onde, senza tradirlo.
Ho sempre creduto che creare qualcosa non significhi imporre una forma su una materia passiva, ma entrare in dialogo con ciò che hai di fronte. Che sia il bronzo di una scultura, il legno di una nave o il vino in una botte, la materia ha qualcosa da dirti. È viva, resiste, risponde. Creare significa ascoltare, adattarsi, trovare un equilibrio tra ciò che vuoi fare e ciò che la materia ti permette di fare. Questo è il “fare” che ho sempre conosciuto: un intreccio, una danza, mai un comando.

Oggi, però, mi ritrovo in un mondo che non riconosco. Un mondo dove tutto sembra essere stato ridotto a merce, dove la velocità ha preso il posto della qualità e il dominio ha cancellato il dialogo. Mi hanno chiesto di viaggiare, di vedere cosa significhi creare nel XXI secolo.
E così adesso sono migliaia di miglia lontano dalla Sicilia, lontano dal Mediterraneo che mi ha cresciuto.
Il mio primo viaggio mi porta in un magazzino Amazon, negli Stati Uniti, un luogo che mi spiegano essere il cuore del commercio moderno. Attraverso oceani e pianure, atterro in un paese che mi appare gigantesco e disarticolato, una terra giovane ma già stanca. Entro in questo magazzino – lo chiamano “fulfillment center” – e subito sento un freddo che non viene dall’aria, ma dall’assenza di vita. Il silenzio è rotto solo dal ronzio delle macchine e dal calpestio rapido di scarpe. Le persone qui non parlano, non si guardano. Mi spiegano che ogni lavoratore ha un dispositivo che gli dice cosa fare, dove andare, cosa prendere. Guardo un ragazzo che corre tra gli scaffali. “Cosa stai facendo?” gli chiedo. Lui mi guarda perplesso, come se non capisse la domanda. Risponde: “Seguo le istruzioni.” Rimango in silenzio.
Il viaggio successivo mi porta ancora più lontano dalla mia Sicilia, in un mondo che non avrei mai immaginato. La destinazione è Guangzhou, una delle città più grandi e popolose della Cina, il cuore pulsante della produzione globale. Guangzhou, un tempo nota come Canton, ha una storia lunga e intricata, fatta di commerci, imperi e rivoluzioni. Fu un centro nevralgico per la Via della Seta marittima e uno dei principali porti del commercio mondiale nel XIX secolo, il punto d’incontro tra l’Oriente e l’Occidente. Oggi, però, la città che si estende davanti ai miei occhi non somiglia affatto a quel crocevia culturale che immaginavo.
Guangzhou è un intreccio di grattacieli che si specchiano nei fiumi grigi, opachi per l’inquinamento, un simbolo vivente di una modernità costruita in fretta e furia, piegando la tradizione a esigenze che sembrano non rispettare più nulla. Dove un tempo si ergevano templi e mercati vivaci, ora ci sono strade affollate di veicoli e complessi industriali che lavorano senza sosta. La città pulsa, ma il suo ritmo non è quello della vita; è quello della produzione, della macchina, della pressione. Mi sento come un pesce fuori dall’acqua, lontano dai cieli aperti della mia Sicilia, dove ogni angolo porta con sé una storia di mani e materiali intrecciati con cura.
Sono qui per visitare Shein, un nome che mi dicono essere sinonimo di moda veloce, un colosso globale che produce abiti per milioni di persone. Mi dicono che Guangzhou è il fulcro di tutto questo, una città dove la modernità ha divorato ogni lentezza, ogni riflessione, ogni relazione tra ciò che si crea e il mondo che lo accoglie.
Entro nella fabbrica, ed è come camminare dentro un gigantesco alveare. Le macchine ronzano senza sosta, il rumore è assordante, un caos di ferri e ingranaggi che sembra non avere mai fine. Tessuti scorrono su nastri trasportatori, mani umane e meccaniche si muovono in sincronia per tagliare, cucire, confezionare. Ogni capo prende forma in pochi secondi. Non c’è tempo per osservare, per ascoltare il tessuto, per capire il filo. È tutto veloce, frenetico, senza pause.
Chiedo di vedere uno degli abiti appena confezionati. Lo tengo tra le mani, ma è leggero, quasi privo di consistenza, infatti non porta con sé alcuna storia, alcuna memoria di chi lo ha creato o del luogo da cui proviene il tessuto. Mi spiegano che Shein produce milioni di capi ogni giorno, venduti online in tutto il mondo. “Vogliamo che chiunque possa comprare, spendendo poco e velocemente,” mi dicono con orgoglio. Mi fermo, guardo quegli abiti, quelle macchine, quelle mani, e sento un peso che non riesco a scrollarmi di dosso.
La città che un tempo era un punto di incontro tra culture, dove ogni merce trasportava con sé il sapore delle terre da cui veniva, è ora un enorme ingranaggio di produzione. Il suo respiro è soffocato dal ritmo delle macchine.
La mia ultima tappa è in Svizzera, a Vevey, dove ha sede Nestlé, la più grande azienda alimentare del mondo. La Svizzera è ordinata, precisa, ma mi appare fredda, lontana dalla passione caotica della mia Sicilia. Entro negli stabilimenti Nestlé e vedo macchine che trasformano il latte in polvere, che impacchettano barrette. E, con mio grande stupore, bottiglie d’acqua. Tutto è perfetto, tutto è impeccabile. Ma dove sono le persone? Dove sono le mani che un tempo mungevano le mucche, che lavoravano il latte? Mi spiegano che acquistano l’acqua in regioni povere, la imbottigliano e la vendono nei mercati ricchi. “E cosa lasciate a quelle terre?” domando. “Nulla. Non è necessario,” mi rispondono.
Rimango senza parole.
“Non è necessario?” sussurro. “L’acqua non è vostra. È di chi la beve, di chi la vive. Come potete prenderla senza restituire nulla? Come potete non capire che ogni goccia che imbottigliate toglie qualcosa a qualcuno?”
Nessuno risponde. Mi sento come se stessi parlando con le macchine.

Sono tornato in Sicilia da più di due settimane, ma i ricordi del viaggio che ho fatto mi pesano più del corpo di una balena. Guardo il mio mare, sento il suo respiro, e penso a ciò che ho visto. Un mondo fatto di efficienza senza vita, di velocità senza anima. Un mondo che ha dimenticato cosa significa creare, cosa significa ascoltare. Quando penso alle mie cantine, alle mie tonnare, vedo un tempo in cui ogni cosa aveva un senso, in cui ogni gesto era parte di qualcosa di più grande. Questo mondo non ascolta. Questo mondo non guarda. Forse è troppo tardi. Ma finché il mare si muove e il vento soffia, voglio credere che non tutto sia perduto. Voglio credere che qualcuno, da qualche parte, ricorderà.

Ma io, oltre la speranza, ho anche domande che bruciano, domande che mi tormentano.

Perché non ascoltate più la materia che lavorate? Perché trattate il vino, il tessuto, il cibo come oggetti inerti e non come qualcosa che vive e risponde? Dov’è il rispetto per il tempo? Il tempo che ci vuole per capire, per maturare, per creare? Come potete credere che la velocità sia un valore in sé, se tutto ciò che produce è oblio?
E poi, chi sono le persone che lavorano per voi? Avete mai parlato con loro? Avete mai guardato le loro mani, i loro occhi? Sapete cosa pensano, cosa sentono? Oppure per voi sono solo numeri, ingranaggi, strumenti? E le terre che sfruttate? Avete mai camminato in un campo di cotone, in una vigna, in una tonnara? Avete mai sentito il calore del sole sulla pelle, il profumo della terra bagnata, il respiro del mare?
E il vostro prodotto? Che storia racconta? Chi lo ha creato, con quali mani, con quali sogni? O per voi non importa? Basta che sia economico, che sia veloce, che sia venduto? Come potete vivere in un mondo dove nulla è fatto per durare, dove tutto è progettato per essere consumato e dimenticato? Non vi pesa il vuoto che lasciate dietro di voi?
Infine, mi chiedo: dove sono le relazioni? Dove sono le connessioni tra le persone, tra i materiali, tra il prodotto e il mondo che lo circonda? Come potete credere che la produzione sia solo una questione tecnica, senza mai chiedervi cosa significhi per chi crea, per chi usa, per chi guarda?

Non ho risposte. Ho solo queste domande, che bruciano dentro, come sa fare solo il sole di Sicilia. Ma se c’è una cosa che so, è questa: creare non è mai solo produrre. È entrare in relazione, è lasciare un segno, è dare significato a qualcosa che possa durare, che possa parlare, che possa vivere. E se il mondo di oggi non riesce a capirlo, allora mi chiedo: quale futuro possiamo avere?
Ma a questa ultima domanda retorica ho invece una risposta: avremo il futuro che abbiamo il coraggio di immaginare oggi.

Postilla
Nel contrasto con il mondo moderno, dominato dalla velocità e dall’alienazione, la filosofia del “fare artigiano” di Florio offre una risposta potente: creare è ascoltare, è immergersi nel flusso della vita, è trovare un equilibrio tra intenzione e contesto. Florio, ci ricorda che produrre non è mai solo tecnica, ma sempre anche relazione, narrazione e appartenenza. Raccontare Florio significa riaffermare un modello di “fare” che parla di connessioni, non di separazioni, di significati, non di meri oggetti.

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Sulle orme di Giano: Innovare è Rigenerare


Nel cuore di Roma, tra le pietre millenarie del Foro Romano, un’assenza racconta una storia che continua a sfuggirci. Qui, in quello che un tempo era il fulcro della vita politica e religiosa dell’Urbe, sorgeva il Tempio di Giano, dedicato al dio bifronte, custode dei passaggi e delle soglie e padre di tutti gli dei. Di quel tempio oggi rimangono solo poche tracce.

Eppure l’immaginazione ci spinge a ricostruirne la presenza, a riempire il vuoto lasciato dal tempo con le storie che Giano ancora ispira.

 Nell’antica Roma, Giano era il custode di ogni soglia: non solo fisica, come porte e ponti, ma anche simbolica, come quelle tra guerra e pace, passato e futuro. Le sue porte sacre si aprivano in tempo di guerra e si chiudevano in tempo di pace, rappresentando la dualità e la continuità che permeano ogni trasformazione. Era il dio del primo mese dell’anno, gennaio, che porta il suo nome e segna il passaggio tra il vecchio e il nuovo.

Ma Giano, con il suo sguardo duplice, non separava mai completamente il passato dal futuro: la sua visione era ciclica, un eterno fluire dove ogni innovazione trovava le sue radici in ciò che era già stato.

Sorprendentemente, non esiste un busto di Giano bifronte esposto in un museo romano con un’attribuzione certa e riconosciuta da tutta la comunità scientifica. Le sue raffigurazioni scultoree, sebbene rare e frammentarie, si disperdono nel tempo come i pezzi di un enigma. La figura di Giano, così simbolica e fondamentale nella mitologia romana, sembra sfuggire alla concretezza della pietra, rimanendo un’idea più che un’immagine definita.

Le ragioni di questa assenza sono molteplici. Innanzitutto, le rappresentazioni di Giano sono varie e mutevoli: il dio dei passaggi ha attraversato i secoli in forme diverse, senza mai cristallizzarsi in un unico modello iconografico. Inoltre, molte sculture antiche sono giunte fino a noi in frammenti e i restauri hanno spesso alterato la loro fisionomia originale, rendendo difficile attribuirle con certezza a una specifica divinità. Persino nei contesti archeologici più significativi, come il Foro Romano, l’identità di Giano si dissolve, lasciandoci con poche certezze e molte suggestioni.

 E così, visitare il Foro diventa un’esperienza immaginativa: camminando tra le rovine, si può quasi sentire la presenza di Giano. Non c’è bisogno di un busto per cogliere la sua essenza: Giano vive nei luoghi di passaggio, nelle soglie che attraversiamo ogni giorno, nei momenti di cambiamento che definiscono la nostra esistenza.  La sua figura unisce simbolicamente le forze contrastanti dell’universo: da un lato l’acqua e la terra, pesanti e tendenti a scendere, dall’altro il fuoco e l’aria, leggere e tendenti a salire. È attraverso questa capacità di tenere insieme le tensioni opposte che Giano diventa il mediatore tra passato e futuro, il creatore di un dialogo continuo tra tradizione e innovazione.

Attraverso i secoli, il mito di Giano ha continuato a ispirare pensatori e creatori. Nel Rinascimento, gli artisti incarnarono questo spirito nel loro lavoro: Brunelleschi, nella progettazione della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, non rifiutò le conoscenze antiche, ma le reinterpretò in chiave moderna.

Oggi, nel linguaggio comune, il termine “Giano bifronte” è spesso usato in senso negativo per descrivere una persona percepita come disonesta o falsa, qualcuno che presenta due facce opposte: una visibile e rassicurante, l’altra nascosta e insincera. Questa interpretazione nasce da una semplificazione della figura mitica di Giano, che nella sua essenza non è affatto simbolo di falsità, ma di ambivalenza creativa e capacità di connessione tra opposti.

L’idea di associare Giano bifronte alla falsità riflette probabilmente la difficoltà, in ambito umano, di accettare la non univocità. Nel nostro immaginario culturale, siamo più inclini a considerare la coerenza lineare come un valore, mentre chi esprime visioni o comportamenti contrastanti viene facilmente etichettato come incoerente o, peggio, ingannevole.

Viviamo in un mondo dominato da una sola idea di innovazione lineare che celebra la rottura, la “disruption”, come unico vero progresso. In questa visione economicista, il valore dell’innovazione si misura in termini di velocità, profitto immediato e capacità di soppiantare il vecchio con il nuovo. È un modello lineare e aggressivo, che riduce il cambiamento a una competizione incessante e sacrifica la profondità del significato per la novità superficiale.

La Silicon Valley è l’emblema di questo approccio, dove ogni nuova tecnologia è presentata come una rivoluzione. E il passato diventa un ostacolo da superare. Ma in questa corsa, spesso si perde di vista il motivo stesso per cui innoviamo: non solo creare qualcosa di nuovo, ma migliorare la vita delle persone e arricchire il nostro mondo con idee che abbiano valore duraturo.

Nell’ultimo ventennio, le start-up sono state celebrate come il motore dell’innovazione, sono diventate il simbolo della rottura radicale con il passato, unica forza capace di generare nuovi mercati, nuovi modelli di business e nuove opportunità. Tuttavia, dietro questa narrazione idealizzata si cela una realtà più complessa, in cui velocità e innovazione raramente si traducono in valore duraturo.

Uno sguardo ai dati degli ultimi venti anni rivela una realtà inquietante. La maggior parte delle start-up fallisce entro pochi anni dalla fondazione. Secondo uno studio di CB Insights, il 70% delle start-up non supera il quinto anno di attività, e il 90% fallisce complessivamente. Nonostante gli investimenti massicci, le promesse di rivoluzione e i titoli entusiastici, solo una piccola frazione di queste imprese riesce a sopravvivere e prosperare nel lungo termine. Il modello dominante delle start-up sembra dunque essere intrinsecamente fragile.

Un esempio emblematico: WeWork.  Una start-up che, negli anni 2010, ha ridefinito il concetto di spazi di coworking. Valutata a un certo punto oltre 47 miliardi di dollari, WeWork è crollata nel 2019 a causa di una gestione finanziaria insostenibile e di una visione aziendale che puntava più all’espansione rapida che alla sostenibilità a lungo termine. Nonostante l’impatto iniziale e la promessa di innovazione, WeWork ha mostrato come un modello di crescita eccessivamente aggressivo possa minare la continuità.

Le start-up sono spesso costruite sulla premessa di rompere con il passato, distruggendo i modelli consolidati per introdurre qualcosa di completamente nuovo. Questo approccio, pur capace di generare soluzioni innovative, manca frequentemente di continuità. L’ossessione per la velocità e l’espansione non lascia spazio per riflettere sulle radici culturali, sociali e storiche che potrebbero offrire una base più solida per l’innovazione.

Un caso interessante è quello di Theranos, la start-up biotecnologica fondata da Elizabeth Holmes, che prometteva di rivoluzionare il settore della diagnostica medica. Basata su tecnologie non ancora consolidate, Theranos ha puntato tutto sull’impatto immediato, trascurando i principi fondamentali della scienza medica e della sicurezza del paziente. Il risultato è stato un disastro che ha compromesso non solo l’azienda, ma anche la fiducia del pubblico nell’innovazione biotecnologica.

 Le nuove idee devono rispondere a bisogni reali e creare valore duraturo. Tuttavia, molte start-up si concentrano sulla creazione di prodotti o servizi che non affrontano problemi significativi, ma cercano piuttosto di cavalcare mode passeggere. Questo approccio produce spesso innovazioni superficiali, incapaci di generare un impatto profondo o duraturo.

 Un esempio è rappresentato da molte app di consumo, progettate per attirare rapidamente utenti e investimenti senza offrire un valore reale. Juicero, una start-up che produceva una macchina per spremute “intelligente”, è diventata un simbolo di questa superficialità. Con un prezzo elevato e funzionalità discutibili, Juicero è crollata non appena gli utenti hanno scoperto che il prodotto non era essenziale né utile. Questa mancanza di significato ha portato al fallimento, evidenziando i limiti di un’innovazione fine a sé stessa.

La rigenerazione è il principio più trascurato nel modello delle start-up. L’approccio dominante si basa su un’idea di crescita lineare, in cui l’obiettivo è ottenere il massimo ritorno economico nel minor tempo possibile. Questo spesso porta a pratiche insostenibili, che sfruttano risorse senza preoccuparsi della loro rigenerazione o dell’impatto a lungo termine.

Uber, pur avendo rivoluzionato il settore dei trasporti, è stato criticato per aver creato un modello di business che si basa su pratiche discutibili, come il trattamento precario dei lavoratori e un impatto ambientale significativo. Sebbene Uber abbia introdotto innovazioni tecniche, il suo modello non è rigenerativo: non considera come reintegrare nel sistema economico e sociale il valore estratto, ma si limita a sfruttare le risorse esistenti.

 In sostanza noi trascuriamo una idea basilare: nel cuore della nostra cultura, nel mito e nella storia che ci hanno preceduto, si trovano le radici del nostro modo di pensare il cambiamento e l’innovazione. La figura di Giano, il dio bifronte capace di guardare al passato e al futuro, rappresenta non solo un simbolo della transizione, ma un avvertimento: innovare senza memoria, senza uno sguardo consapevole alla storia e ai miti che ci hanno formato, porta a un’innovazione priva di significato. È la mancanza di continuità e di profondità che caratterizza oggi il “mito” moderno delle start-up, a produrre uno pseudo progresso che spesso corre verso il futuro dimenticando di portare con sé il senso e la saggezza del passato.

Quando dimentichiamo i miti e le storie che ci hanno formato, l’innovazione si riduce a un esercizio tecnico, a un gioco sterile di creazione di novità senza radici. 

Artisti e pensatori come Italo Calvino ci ricordano che ogni creazione deve dialogare con ciò che l’ha preceduta. Nel suo saggio Lezioni americane, Calvino sottolinea l’importanza della leggerezza e della profondità, due qualità che si ottengono solo quando si conosce la storia e si è in grado di lavorare con essa, non contro di essa. L’innovazione che ignora il passato diventa allora pesante, priva di quella leggerezza che nasce dalla consapevolezza del contesto e della tradizione.

Ma soprattutto quando si diventa “a-storici”(essere astorici significa vivere e pensare come se il presente fosse l’unica dimensione esistente, senza considerare il contesto storico e l’evoluzione nel tempo dei fenomeni) ci tramutiamo in “clientes” del potere di pochi e delle loro fabbriche di miti falsi. Per intenderci: nel significato latino del termine, i clientes erano cittadini romani liberi, ma legati da un rapporto di dipendenza e protezione a un patrono. In cambio della protezione e dell’assistenza ricevute, il cliente era tenuto a mostrare lealtà e devozione al patronus, sostenendolo nelle sue imprese e votando per lui nelle elezioni.

Anche in ambito artistico, i grandi innovatori hanno sempre lavorato con il passato, non contro di esso. Pablo Picasso, ad esempio, non ha distrutto l’arte classica, ma l’ha rielaborata attraverso il Cubismo, trasformandola in qualcosa di nuovo e rilevante per il suo tempo. Questo è il tipo di innovazione che possiamo definire trasformativa: un processo che rigenera, che dà nuovo significato senza cancellare ciò che l’ha preceduto.

La lezione di Giano e l’alternativa della SEU

La critica alle start-up non implica che l’innovazione debba essere rifiutata. Al contrario, ci invita a ripensare i modelli attraverso cui innoviamo. La Strategia Economica Umana (SEU) offre un’alternativa che si allontana dalla velocità e dalla rottura per abbracciare la continuità, il significato e la rigenerazione.

La continuità è il riconoscimento che ogni innovazione nasce da radici profonde. Nulla esiste nel vuoto: ogni idea, ogni progresso, si basa su un’eredità culturale, storica e sociale. Come nelle antiche botteghe rinascimentali, dove maestri e apprendisti lavoravano insieme, le idee più potenti emergono dall’interazione di diverse prospettive e dalla valorizzazione del sapere condiviso.

Il significato è il cuore dell’innovazione januale. Non si tratta solo di “come” innoviamo, ma il “perché”. L’innovazione che conta è quella che risponde ai bisogni umani, che crea valore duraturo e che si connette alle aspirazioni più profonde delle persone. Ogni progresso significativo è radicato in una comprensione del contesto e delle storie che lo hanno preceduto.

La rigenerazione, infine, rappresenta il processo di trasformazione in cui il vecchio non viene eliminato, ma rinnovato. Come il ciclo naturale della vita, l’innovazione januale vede ogni passaggio come un’opportunità per creare qualcosa di nuovo senza distruggere ciò che già esiste. Questo approccio è evidente nel fenomeno dell’exaptation in biologia, dove strutture sviluppate per una funzione specifica vengono adattate a nuovi scopi. Allo stesso modo, l’innovazione januale trasforma ciò che è obsoleto in una nuova fonte di valore.

Alcune aziende, anche nel contesto delle start-up, hanno adottato approcci più trasformativi. Patagonia, ad esempio, ha costruito un modello di business basato sulla rigenerazione ambientale e sulla continuità culturale, dimostrando che è possibile innovare senza distruggere. Analogamente, Etsy ha creato una piattaforma che valorizza artigiani locali, combinando innovazione tecnologica con significato e sostenibilità culturale.

Come il dio che non volta mai completamente le spalle a nessuna delle due direzioni, l’innovazione januale, trasformativa proposta nella SEU  integra ciò che è stato con ciò che sarà, creando una trasformazione consapevole e significativa.

Essere un “Giano bifronte”, nella sua accezione autentica, non è una questione di inganno, ma di capacità di guardare la realtà da più prospettive. In contesti complessi, come la gestione aziendale, i passaggi generazionali o i momenti di crisi, questa capacità è fondamentale. Non si tratta di scegliere tra passato e futuro, tra stabilità e cambiamento, ma di saperli tenere insieme, cogliendo il valore di entrambi.

Forse il vero inganno non è essere bifronti, ma fingere che una sola prospettiva, un solo volto, sia sufficiente per affrontare le sfide della vita.

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Rivoluzione o “Re-volutio”? una vita tra informatica, economia e antropologia


“Il computer non è solo una macchina che calcola, è uno strumento che trasformerà il modo in cui le aziende operano.”

Queste parole risuonavano nell’aula magna dell’Università di Pisa nell’autunno del 1978. Ero uno dei primi studenti del corso di laurea in Scienze dell’Informazione, seduto in un’aula dove si respirava il futuro, o meglio quello che noi immaginavamo potesse essere un futuro fantastico. Mentre i miei colleghi erano affascinati principalmente dagli aspetti tecnici della programmazione, io intravedevo già qualcosa di diverso: il potenziale rivoluzionario che l’informatica avrebbe avuto nel mondo del business, ma soprattutto il suo impatto profondo sulla dimensione umana del lavoro.

Era ormai superata l’epoca della CEP: Calcolatrice Elettronica Pisana a transistor e valvole installata nel 1959 (anno della mia nascita) all’università di Pisa, ma programmare significava ancora preparare meticolosamente pile di schede perforate, ciascuna contenente una singola istruzione. Un errore in una sola scheda significava ricominciare da capo. Questa disciplina metodologica, apparentemente frustrante, si sarebbe rivelata una lezione preziosa per il mio futuro nelle aziende: la precisione nella pianificazione e l’importanza di una visione sistemica. Ma più di tutto, mi insegnò che dietro ogni riga di codice c’era un pensiero umano, una logica che andava ben oltre la mera meccanica del calcolo.

Un giorno, durante una sessione di programmazione nel laboratorio della facoltà, uno dei professori mi chiese: “Perché ti interessa così tanto l’informatica se il tuo obiettivo è il management aziendale?” La mia risposta fu più profonda di quanto potessi realizzare allora: “Perché chi comprende sia il linguaggio dei computer sia quello del business potrà costruire ponti tra questi due mondi. Ma soprattutto, perché la vera sfida non sarà tecnica, ma capire come la tecnologia può amplificare, non sostituire, le capacità umane.”

Già allora intuivo l’importanza di un approccio antropologico nell’integrazione della tecnologia nelle organizzazioni. Riconoscere che le aziende sono fatte di persone, relazioni e culture significava comprendere che l’introduzione di nuove tecnologie avrebbe dovuto rispettare e valorizzare questi aspetti, piuttosto che soffocarli. La scelta di proseguire con Economia dopo l’esperienza in Scienze dell’Informazione non fu un cambio di direzione, ma un’evoluzione naturale.

Durante quegli studi, ma soprattutto dopo nel corso della mia esperienza a contatto con le persone nelle aziende, incontrai il pensiero dell’economia antropologica, che mi aprì gli occhi su una verità fondamentale: l’economia non è solo una questione di numeri e transazioni, ma di relazioni umane, rituali sociali, significati condivisi. Le organizzazioni non sono semplici macchine da ottimizzare, ma comunità vive, con le loro culture, i loro valori, le loro dinamiche sociali. Non volevo essere un programmatore, volevo essere un manager capace di comprendere e valorizzare questa dimensione profondamente umana del lavoro e dell’organizzazione. La mia peculiarità sarebbe stata proprio questa: la capacità di vedere oltre l’approccio puramente tecnico che dominava il pensiero dell’epoca, per concentrarmi su come la tecnologia potesse invece arricchire, non impoverire, il tessuto di relazioni e significati che forma ogni organizzazione, ogni comunità.

Questa formazione duale—informatica prima ed economia poi—mi ha fornito una prospettiva unica nel panorama manageriale italiano degli anni ’80 e ‘90. Mentre molti manager vedevano l’informatica attraverso una lente puramente meccanicistica, come un centro di costo da minimizzare, io la consideravo uno strumento di potenziamento delle capacità umane. La mia comprensione dei principi fondamentali della programmazione, unita alle competenze di business e a una sensibilità “antropologica”, mi permetteva di vedere opportunità di crescita umana dove altri vedevano solo automatismi da implementare.

Un esempio emblematico fu l’implementazione di uno dei primi sistemi di CRM in Italia. Durante una riunione cruciale con il board di una grande azienda, il CTO stava faticando a spiegare i benefici tecnici del progetto, cadendo nella trappola del riduzionismo tecnologico. Presi la parola e tradussi: “Non stiamo parlando di database e server. Stiamo parlando di comprendere l’essenza delle relazioni umane nel contesto aziendale. Stiamo parlando di trasformare ogni interazione in un’opportunità di crescita reciproca, dove la tecnologia amplifica, non sostituisce, la capacità umana di costruire relazioni significative.” Il progetto fu approvato, e nei successivi due anni portò non solo a un incremento del 40% nella retention dei clienti, ma a una profonda trasformazione della cultura aziendale.

Questo successo dimostrò come un approccio antropologico all’implementazione tecnologica potesse portare vantaggi significativi, non solo in termini economici, ma anche nel rafforzamento dei legami umani all’interno dell’azienda.

Nel settore bancario, quando guidai lo sviluppo dell’internet banking, la sfida più grande non riguardava la tecnologia, ma la necessità di una nuova cultura aziendale. La banca vedeva se stessa come un custode di sicurezza, e l’idea di permettere ai clienti di operare direttamente online generava resistenze. Il mio approccio fu di abbandonare completamente la visione meccanicistica: con i tecnici parlavo di come la tecnologia che dovevamo implementare serviva soprattutto per potenziare, non sostituire, le relazioni umane; con i banker si discuteva di come l’innovazione digitale potesse liberare tempo per costruire relazioni più profonde con i clienti. Ma la vera innovazione fu nel coinvolgimento degli sportellisti: “Non stiamo meccanizzando il vostro lavoro,” spiegai, “stiamo liberando il vostro potenziale umano per attività dove la vostra empatia e comprensione fanno la differenza.” (Negli anni a seguire mi accorsi che non si realizzò esattamente quello che immaginavo: molti sportellisti furono semplicemente licenziati!)

Il progetto più significativo fu forse la creazione della community digitale per medici anestesisti. Qui, il rifiuto dell’approccio riduzionistico fu totale e consapevole. Prima di scrivere una sola riga di codice, passammo settimane a osservare come gli anestesisti lavoravano in sala operatoria, come si confrontavano nei corridoi dell’ospedale, come condividevano esperienze durante i congressi. Scoprimmo che l’apprendimento più prezioso avveniva attraverso il confronto informale tra colleghi esperti e giovani, spesso attraverso la narrazione di casi clinici complessi. Mentre i tecnici proponevano una piattaforma basata su metriche e automatismi—forum standardizzati e sistemi di rating—io insistetti per replicare digitalmente questi “spazi informali di confronto”. Costruimmo così un ecosistema che permetteva di condividere casi clinici in forma narrativa, facilitava il mentoring tra senior e junior, e ricreava quella dimensione di confronto spontaneo tipica della sala medici. Il risultato fu una piattaforma che non si limitava a facilitare lo scambio di informazioni tecniche, ma riproduceva e amplificava le dinamiche sociali e professionali che rendevano quella comunità così efficace nell’apprendimento e nel supporto reciproco.

Oggi, di fronte alla rivoluzione dell’AI, questa comprensione profonda della dimensione umana del lavoro è più cruciale che mai.

Il titolo “Re-volutio” che ho scelto per questo racconto richiama l’origine latina del termine “rivoluzione”, da “revolvere”, che significa “tornare indietro”. In un certo senso, con l’AI stiamo tornando indietro al pensiero meccanicistico dell’Illuminismo, che vedeva l’universo come una grande macchina regolata da leggi matematiche.

Per essere precisi e per superare l’approccio “marketing” usuale alle nuove tecnologie: l’intelligenza artificiale”, nelle sue forme più diffuse come il machine learning e le reti neurali artificiali, si basa su processi logici, algoritmi e modelli matematici che, sebbene sofisticati, restano fondamentalmente meccanici. I suoi meccanismi interni possono essere ridotti a operazioni di calcolo e a strutture sequenziali che processano informazioni in modo prevedibile, secondo schemi e funzioni stabilite.

Vedo troppe aziende approcciarsi all’AI con la stessa mentalità “meccanica” degli anni ‘80: come una soluzione magica o come una minaccia che sostituirà l’umano. Entrambe le visioni mancano il punto fondamentale: l’AI non è uno strumento di sostituzione, ma di amplificazione del potenziale umano. La vera sfida non è tecnica, ma culturale e sociale: come integrare questa tecnologia in modo che arricchisca, non sostituisca, ciò che ci rende unici—la nostra capacità di empatia, di giudizio contestuale, di comprensione delle sfumature nelle relazioni umane.

È qui che l’approccio antropologico diventa fondamentale: comprendere le esigenze, le paure e le aspirazioni delle persone coinvolte, per assicurare che l’AI sia integrata in modo etico e sostenibile, valorizzando le competenze umane anziché eroderle.

Quando oggi consulto aziende sull’implementazione dell’AI, insisto sulla necessità di guardare prima alle persone e poi alla tecnologia. Le lezioni imparate nei laboratori di Pisa assumono un nuovo significato: l’importanza di osservare come le persone realmente lavorano, collaborano e creano valore, prima di pensare a come la tecnologia possa aiutarle; la necessità di progettare sistemi che amplificano le nostre capacità più preziose—la creatività, l’empatia, il pensiero critico; l’essenzialità di vedere la tecnologia non come un sostituto del lavoro umano, ma come uno strumento per renderlo più ricco e significativo.

La grande differenza tra l’informatica degli anni ‘70 e l’AI di oggi non sta nella rapida evoluzione della tecnologia, quanto nella portata antropologica del cambiamento avvenuto di cui, per altro, l’AI è solo in piccola parte causa. Per adesso.

Allora si pensava alle influenze della meccanizzazione dei processi nella ridefinizione di alcune figure lavorative, oggi a questa si aggiunge la pervasiva disumanizzazione del lavoro e delle relazioni.

Ma i principi fondamentali che ho sempre sostenuto rimangono gli stessi: il vero progresso non dipende da quanta tecnologia ci mettiamo dentro, ma dalla nostra capacità di integrarla in una visione antropocentrica che considera come priorità assoluta la crescita del benessere reale delle persone.

Se la smettessimo di rimanere abbagliati come bambini dalle fantasmagorie dell’AI e iniziassimo a valutarla con uno sguardo critico e maturo, potremmo finalmente riconoscere il suo vero potenziale come strumento al servizio dell’umanità, anziché come fine ultimo o sostituto dell’intelligenza umana.

Se potessimo essere coscienti che il marketing e la comunicazione dei mass-media contribuiscono a questa percezione distorta dell’AI, alimentando aspettative irrealistiche che rafforzano narrazioni fuorvianti: le campagne pubblicitarie spesso presentano l’AI come una soluzione magica e onnipotente, enfatizzando storie sensazionalistiche riguardanti l’AI, senza fornire un contesto adeguato o una comprensione approfondita.

Guardando al futuro, vedo l’AI come un’opportunità per superare definitivamente l’approccio riduzionistico e meccanicistico che ha dominato il pensiero tecnologico per decenni o meglio per centinai di anni, sin dall’epoca illuminista del XVIII secolo.

Come manager con un piede nel mondo tecnico e uno nel business, ma soprattutto con una forte sensibilità antropologica, ritengo che il nostro ruolo oggi è più cruciale che mai: dobbiamo essere i garanti di una trasformazione che metta al centro l’uomo, guidando le organizzazioni verso un futuro dove la tecnologia amplifica, non sostituisce, ciò che ci rende unicamente umani.

Questo era il sogno che avevo già in quell’aula di Pisa nel 1978, e che oggi, nell’era dell’AI, diventa più attuale che mai.

E di questo mi sento personalmente responsabile nei confronti delle generazioni future.

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Postilla.

Perché non è corretto chiamare l’AI “intelligenza” e “artificiale”

Al termine di questa riflessione, sento la necessità di sottolineare un punto cruciale: non è corretto, né tecnicamente né nella sostanza, definire l’AI come “intelligenza” e “artificiale”.

Perché non è “intelligenza”: Il termine “intelligenza” implica capacità intrinsecamente umane come la coscienza, la comprensione profonda, l’intuizione e l’empatia. Le attuali tecnologie di AI, per quanto avanzate, sono sistemi che elaborano dati e riconoscono pattern secondo algoritmi predefiniti. Non possiedono consapevolezza di sé, non comprendono il significato delle informazioni che processano e non possono provare emozioni o intenti propri. Pertanto, attribuire loro il termine “intelligenza” rischia di antropomorfizzarle, creando aspettative irrealistiche sulle loro capacità.

Perché non è “artificiale”: L’aggettivo “artificiale” suggerisce una contrapposizione netta con ciò che è naturale. Tuttavia, le AI sono create da esseri umani e operano su dati generati in contesti umani. Inoltre, apprendono da informazioni che riflettono comportamenti, decisioni e bias umani. In questo senso, non sono completamente separate dall’esperienza umana, ma ne sono un’estensione mediata dalla tecnologia.

È importante adottare una terminologia più precisa che rifletta la realtà di questi sistemi. Forse sarebbe più corretto parlare di “automazione cognitiva” (i sistemi sono progettati per automatizzare compiti che richiedono processi cognitivi, come l’elaborazione del linguaggio naturale o il riconoscimento di immagini) o “elaborazione avanzata dei dati”. Solo attraverso una comprensione accurata possiamo integrare queste tecnologie in modo etico e sostenibile, assicurandoci che servano ad amplificare, e non a sostituire, le capacità unicamente umane che ci definiscono.

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Manifesto for a Human-centric Economic Strategy


Introduction

The global economy, shaped by centuries of industrialization and capitalist expansion, has often prioritized profit over people. Traditional economic models emphasize efficiency, competition, and continuous growth, frequently neglecting social and ethical considerations. This manifesto advocates for a Human-Centric Economic Strategy that places individuals and communities at the core of economic decisions. By integrating historical insights and alternative economic perspectives, we aim to redefine prosperity in terms that are sustainable, equitable, and deeply rooted in human values.

Understanding the Human-Centric Economic Strategy

Human-Centric: This approach draws from anthropology—the study of human societies, cultures, and their development. By focusing on the human element, we recognize that economic activities are not isolated transactions but are embedded within social and cultural contexts. This perspective emphasizes the importance of human needs, relationships, and values, ensuring that economic systems serve the people rather than subordinating them to market forces.

Economic: The term “economic” originates from the ancient Greek word oikonomia (οἰκονομία), meaning “management of the household.” In its original sense, it referred to the stewardship and allocation of resources within a community to ensure collective well-being. This profound, non-utilitarian meaning underscores that economics should be about sustaining households and communities, not merely generating profit. It calls for a return to managing resources responsibly to support societal needs.

Strategy: Strategy involves long-term planning to achieve overarching goals, taking into account the broader environment and future implications. It contrasts with tactics, which are short-term actions focused on immediate outcomes. A strategic approach in economics requires a comprehensive understanding of social, cultural, and environmental factors, enabling the creation of resilient systems. Unlike short-sighted tactics that prioritize quick gains, a strategy seeks sustainable success by anticipating challenges and opportunities.

Limitations of Traditional Economic Models

The Myth of Scarcity and Infinite Needs

Mainstream economics operates on the assumption that human needs are unlimited while resources are scarce. This belief, entrenched during the Industrial Revolution, has driven relentless consumption and environmental degradation. Anthropologist Marshall Sahlins, in his 1972 work “Stone Age Economics”, highlights how hunter-gatherer societies achieved affluence through limited needs and sustainable resource use. These societies demonstrate that scarcity is not an inherent condition but a construct of specific economic systems.

Historical Consequences

The pursuit of infinite growth has led to significant social and environmental issues:

Environmental Degradation: Since the 20th century, industrial activities have caused a 1°C rise in global temperatures, leading to climate change (IPCC, 2018).

Economic Inequality: The top 1% of the global population now holds over 40% of the world’s wealth (Credit Suisse, 2020).

Resource Depletion: Non-renewable resources like fossil fuels are being consumed at unsustainable rates, threatening future generations.

These outcomes illustrate the unsustainability of models based on endless growth and consumption.

Centrality of the Human Being

Values and Meaning in Economic Activities

Economies should serve the well-being of people, not just generate wealth. Historical movements like the Arts and Crafts Movement in the late 19th century emphasized craftsmanship and the moral value of work over mass production. Consumers increasingly seek products that resonate with their values, as seen in the rise of fair-trade goods, which grew to a market value of €9.8 billion in 2018 (Fairtrade International).

Cultural and Social Context

Economic strategies must account for cultural diversity. The Mondragon Corporation in Spain, founded in 1956, is a successful cooperative that aligns business practices with Basque cultural values of solidarity and mutual aid. This model demonstrates how integrating cultural context leads to sustainable and socially responsible economic success.

Role of Small Entrepreneurs and Ethical Leadership

Decentralization of Economic Power

Concentrated economic power often leads to monopolies and reduced innovation. Historical examples like the breakup of Standard Oil in 1911 under antitrust laws show the necessity of decentralization for a healthy economy. Small and medium-sized enterprises (SMEs) contribute significantly to innovation and employment, accounting for over 90% of businesses and 50% of employment worldwide (World Bank).

Ethical Management Practices

Leaders who prioritize ethics contribute to long-term success. The cooperative movement, which began in the 19th century, showcases businesses that balance profit with social responsibility. The Cooperative Group in the UK, for instance, has over 4.6 million members and emphasizes ethical practices in its operations.

Innovation Through Meaning Creation

Addressing Genuine Needs

Innovation should focus on meaningful improvements to human life. The development of open-source software, like Linux in 1991, emerged from a community addressing shared needs rather than profit motives. This approach has led to robust, widely adopted technologies that prioritize user empowerment.

Collaborative Innovation Models

Co-creation involves stakeholders in the innovation process. The success of platforms like Kickstarter, launched in 2009, demonstrates the viability of collaborative funding and idea generation, resulting in over $5 billion pledged to creative projects.

Reconsidering Scarcity and Consumption

Sustainable Resource Management

Historical practices of indigenous communities illustrate sustainable living. The Haudenosaunee (Iroquois) Confederacy employed the “Seven Generations” principle, making decisions based on their impact seven generations into the future. This long-term perspective contrasts sharply with short-term profit models.

Redefining Prosperity

Economist E.F. Schumacher’s 1973 book “Small Is Beautiful” argues for economies based on appropriate scale and sustainable practices. Bhutan’s Gross National Happiness index, adopted in the 1970s, measures prosperity through collective well-being rather than solely economic output.

Fundamental Principles of the Human-Centric Economic Strategy

1. Human Well-Being as the Primary Goal: Economic activities should enhance the quality of life, prioritizing health, education, and happiness.

2. Ethical and Social Responsibility: Businesses must consider the societal and environmental impact of their actions, adhering to principles like those outlined in the UN Global Compact.

3. Cultural Respect and Integration: Strategies should be tailored to local contexts, respecting cultural practices and knowledge systems.

4. Decentralization and Inclusivity: Empower local enterprises and promote equitable access to economic opportunities, countering the concentration of wealth.

5. Sustainable Resource Use: Adopt practices that ensure long-term environmental health, drawing on historical models of sustainability.

6. Collaborative Innovation: Engage stakeholders at all levels in the development process to create products and services that meet real needs.

7. Redefinition of Needs and Consumption: Challenge the notion of infinite needs by promoting minimalism and intentional consumption, as seen in movements like voluntary simplicity.

8. Long-Term Planning: Prioritize strategies that offer sustainable benefits over immediate gains, learning from historical successes and failures.

Implementation Strategies

Policy and Regulation

Governments can facilitate this shift by:

• Implementing progressive taxation to reduce inequality, as successfully done in Nordic countries.

• Supporting SMEs through grants and reduced regulatory burdens.

• Enforcing environmental regulations to ensure sustainable practices.

Education and Awareness

• Incorporate ethical economics into educational curricula.

• Promote awareness campaigns about the impacts of overconsumption.

Community Engagement

• Encourage community-supported agriculture (CSA), which connects consumers directly with producers, a model that has grown significantly since the 1980s.

Measurement and Evaluation

• Use alternative metrics like the Genuine Progress Indicator (GPI) to assess economic success, considering factors like environmental health and social welfare.

Benefits of a Human-Centric Approach

Economic Antifragility: Diversified economies are less vulnerable to global market fluctuations.

Social Equity: Reduced inequality leads to healthier societies, as documented in “The Spirit Level” by Wilkinson and Pickett (2009).

Environmental Sustainability: Responsible resource use mitigates climate change and preserves ecosystems.

Enhanced Innovation: Inclusive practices foster diverse ideas and solutions.

Challenges and Considerations

Transition Costs: Shifting paradigms may involve short-term economic adjustments.

Resistance from Established Interests: Entities benefiting from the status quo may oppose changes.

Need for Global Cooperation: Issues like climate change require coordinated efforts beyond national borders.

Conclusion

History provides numerous examples of societies that have balanced economic activity with human and environmental well-being. By learning from these models and integrating ethical considerations into economic strategies, we can address current global challenges. A Human-Centric Economic Strategy is essential for sustainable prosperity. It requires collective effort, informed by historical successes, to redefine progress in terms that truly benefit humanity and the planet.

Note: This manifesto was conceptually envisioned by a seasoned 65-year-old manager and crafted with the assistance of artificial intelligence. It is a heartfelt call to action for the younger generation to bring this vision to life. Only by embracing new ways of thinking and moving beyond outdated mindsets can we build an economy that truly serves humanity. The future lies in your hands; may you lead with wisdom and compassion.

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Biology: a model based on simplicity and effectiveness


Biology is the Ultimate Business Model

The pandemic has reminded us that we’re biological creatures, and the ongoing climate emergency requires a massive update to our ways of thinking and living. The good news is, biology has, along with technical innovations, a lot to teach us about how to think, live and do business. These insights, combined with direction and focus, have the potential to do worlds of good.

The Economist stated that “biological information and its implementation are inseparable. Life runs not on software and hardware, but in allware.” What this means is that the conception and execution of a biological program is one and the same. This is profound as our dominant guiding metaphor over the last decade has been one where these concepts are separate: computers.

We’ve been making technology, businesses, and relationships as if parts of the system are siloed entities and don’t reverberate past a small sphere. This mentality makes it easy to skirt responsibility for things that happen outside your illusory border. We think a shift is in order.

Biology provides a model for balance. Human history post-industrial revolution is a story of unbelievable progress. We’ve lifted billions out of poverty, put a man on the moon and connected the world. However, that story comes with a footnote, or rather, a footprint: CO2 emissions and the climate emergency. The rebranding of human nature as something above nature itself has left us with a blindspot, and thus in our race for linear progress we’ve forgotten about circular equilibrium. Nature and biology not only provide us with a model for how a world in balance might look, but also gives us the tools to make that happen.

Biology teaches us how to adapt.

In a recent appearance the biologist Manolis Kellis outlined how biology’s messiness allows it to adapt, how it is precisely biology’s imperfections that allow it to gain from disorder.

For business, this doesn’t mean creating chaos, but building systems and narratives that can grow and live in harmony with an ever changing world. We’re stepping now into an age of adaptation, where those who can balance a unified vision (a skill of humans), contextual awareness (allware), and an ability to adapt (and evolve) will ultimately thrive.

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Forse lo so, ho capito.


Cosa è l’avventura? L’abbandono inerme alle potenze e ai capricci del mondo, che possono colmarci di doni e annientarci nel giro di un unico rovescio. (Ian McEwan)

Niente resilienza per favore, non conta nulla. Solo dynamis: la forza che libera e non ci chiude, ci lascia aperti a infinite opportunità e a infiniti rischi.

“Dein exienai” bisogna uscire: lo diceva Milziade agli ateniesi incitandoli ad andare fuori dalle mura della città per affrontare il nemico (i persiani di Dario) immensamente sovrastante in termini di uomini, non aspettandolo dentro le mura: lì avrebbero fatto la fine delle altre città greche che erano state distrutte dall’impero persiano, con gli uomini ridotti a schiavi e le donne e i bambini uccisi. Così gli ateniesi sconfissero Dario il re dei persiani: fuori dalle loro mura.

Sarebbe bello dare ancora l’occasione ai nostri bambini di poter giocare e ballare assieme fuori, nelle strade. Per assicurare loro questo, noi dobbiamo uscire, andare fuori le mura, per riprenderci quello che ci hanno rubato o a cui abbiamo volontariamente rinunciato.

Primo: aprirsi alla varietà del mondo.

Secondo: uscire dalla unica dinamica che ormai conosciamo e utilizziamo sempre: la competizione forsennata derivante da una idea bacata di rapporto con gli altri.

Terzo: limare il nostro cervello con quello degli altri, sempre in ogni occasione con pazienza, come fosse un libro da cui imparare, non una semplice occasione per prevalere e utilizzare gli altri.

Quarto: chiamare le cose con il loro nome. Un conflitto è un conflitto e una guerra è una guerra, smettiamola di pararci il culo con la SOLIDARIETA’ e smettiamo, con la nostra solidarietà, di prendere per il culo gli altri e noi stessi. La solidarietà che pratichiamo è in sostanza una forma di viltà che lascia l’altro lì dove è, con un pugno di farina in mano e le armi da noi donate per difendersi, ma non costruiamo nessuna relazione con loro che ci avvicini realmente come essere umani a prenderci cura l’un l’altro.

Quinto: esistono realtà che sfuggono alle nostre misurazioni. Finiamola con questa ossessione per i dati e i numeri. Scomponiamo sistemi complessi, come il nostro corpo, in scatole separate (dia-gnosi) e cerchiamo di proporre soluzioni guardando dentro la singola scatola. Ma il mondo, il nostro corpo, la natura non possono essere comprese così. Ci perdiamo proprio la comprensione, sbandierando come imbecilli i supposti successi della tecnologia numerica: questa lasciamola per portare un razzo su Marte.

Capiremmo di più danzando come fanno i bambini del video: non c’è bisogno di tecnologia per vivere degnamente, solo di avventura!

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Lavorare duro per renderlo semplice….e umano.


Non credo sia un buon affare affrontare i problemi investendo di più nella loro soluzione.

Se ascoltiamo il buon senso comune di moda oggi, questo sembra assolutamente controintuitivo rispetto a quello che ci insegnano a scuola, nelle università o stando alle decisioni che molti manager e imprenditori prendono in tempi difficili in cui i problemi sembrano moltiplicarsi in maniera virale.

Quanto più è complesso il problema e più aggressivo il panorama concorrenziale e più risorse vengono investite dai competitor  e più tecnologia viene proposta per migliorare la situazione, tanto più allora risultano come conseguenza: più complicazioni, più spese, più procedure, più personale, più debiti, più responsabilità da mettere in campo per cercare di stare al passo e continuare a svilupparsi e a crescere. Senza sviluppo né crescita continua, ci dicono tutti, pare non ci sia alcuna possibilità di sopravvivenza.

“Il più” è in genere la risposta più facile e semplice, instillata nella nostra mente sin da bambini. Vi ricordate? La maestra chiama i vostri genitori e, visto che i voti sono bassi, l’UNICA soluzione proposta è quella che il ragazzo deve studiare di più. Punto. 

Molte volte, però, “il più” non è né la soluzione più efficace (non raggiunge gli obiettivi voluti), né quella più efficiente (necessita una quantità di risorse eccessive), né particolarmente innovativa (lo fanno tutti, o quasi).

Perché allora ci ostiniamo a rendere la vita come la corsa dei criceti nella ruota: stancante, inutile, stressante, senza significato, direi senza umanità e spesso con risultati economici discutibili?

Lo ripeto, non sono fautore dell’anti-crescita o anti-profitto.

Mi interessa perché, avendo avuto a che fare con il mondo delle aziende da quasi 40 anni, guardo i comportamenti che la nostra “evoluta” cultura e società ci spinge ogni giorno ad adottare e  i risultati non proprio entusiasmanti che ne conseguono, e allora mi chiedo se non sia  arrivato il momento di mettere in discussione alcuni modi di agire e pensare da robot e domandarsi se esiste un modo migliore e più brillante di andare avanti.

Un modo più brillante e meno alienante di condurre un’ azienda o la nostra vita. Un modo che rifiuti il pensiero unico sul significato del successo professionale o personale come ce lo raccontano le scuole di business o la cultura dominante.

E se per prosperare e vivere bene non fosse sempre necessario avere alla base una mentalità tecnologica o da start up ? Anche se automazione e connettività entro certi limiti possono aiutarci sicuramente.

E se, per puro caso, l’innovazione utile, quella che migliora la vita degli altri, non fosse un processo lineare ed improvviso come una luce che si accende all’improvviso nel cervello di un giovane “startapparo”, ma piuttosto il frutto di una profonda  conoscenza delle regole del gioco dello specifico settore, trovando poi il sistema di infrangere e sovvertire quelle stesse regole e accettando il caso e il caos degli incontri fortuiti con eventi e persone? Innovazione= conoscenza+caso

Per favore non credete alle ca***te che raccontano sulle start up: basterebbe conoscere alcuni fatti per non cascarci:

– Il modello delle start up è nato nella Silicon Valley intorno agli anni ’80, nel settore specifico dello sviluppo del software. Non è detto che questo modello funzioni in altri contesti economici, territoriali e sociali. Infatti oggi…

1 – Il 90% delle start up fallisce.

2- La causa principale del fallimento è: non capiscono il mercato in cui vogliono entrare!

3 – Un’altra importante causa di fallimento è la mancanza di cash e/o eccessivo debito che non riescono a ripagare con gli esigui profitti conseguiti (la mania di partire in grande da subito con i soldi dei venture capitalist e la “malattia del più” che gonfia le spese generali).

Il bello è che ce lo propongono come modello virtuoso, consigliando di inglobarlo dentro le aziende per velocizzare il processo innovativo. Non funziona: le aziende sono progettate per sopravvivere evolvendosi, non per crescere e innovare continuamente. 

E’ il processo di evoluzione progressiva e sostenibile che permette alle aziende di adattarsi efficacemente agli eventi che la realtà del territorio prospetta e non certo la crescita a 360 gradi o il così detto progresso continuo.

L’azienda è un sistema complesso, ma contrariamente a quello che molti pensano, un sistema complesso non ha necessità di strutture e procedure complesse. Anzi più semplice è, meglio è. Aggiungendo a dismisura tecnologie, strutture, team di progetto, prodotti, processi, sistemi di controllo e via di seguito, complicando insomma, non si fa altro che innescare reazioni a catena che moltiplicano gli effetti inaspettati. E poiché questi effetti sono difficili appunto da prevedere, la reazione istintiva (ma venduta come razionale e ineludubile) porta i manager e l’imprenditore ad investire ancora più risorse in sistemi previsionali, in big data, in tecnologie digitali, in analisti e ricercatori di mercato, innescando un circolo vizioso che porta spesso alla rovina dei profitti e mette a rischio la sopravvivenza dell’azienda.

Il risultato di tale atteggiamento? Questo: 

negli anni ’70 la permanenza media di un’impresa all’interno dell’indice S&P era di circa 25-30 anni, oggi in media un’azienda può aspettarsi di rimanere in media nell’indice delle 500 aziende americane a maggiore capitalizzazione per circa 15 anni.

Alcune è vero, proprio perché ancora profittevoli, scompaiono dall’S&P 500 in quanto acquisite da altre aziende. Ma sono poche.

E le altre? Il mainstream dei venditori di falsi miti dice che è colpa del fatto che non sanno innovare abbastanza. 

Ma come, le aziende che stanno nel gota mondiale per capitalizzazione non sanno innovare?

E allora delle due l’una: o non ci intendiamo sul significato di innovazione e sul come innovare oppure l’innovazione tecnologica, se mal implementata, per se è distruttiva!

E distruggere risorse, sprecare talento, licenziare, produrre crack finanziari non ha niente a che vedere con il progresso o la presunta e ignorante idea che bisogna fallire tanto e presto per avere successo! Questo sarebbe accettabile solo nel caso in cui chi fallisce non rovina anche altri senza pagarne le conseguenze.

Skin in the game, ricordate?

Quindi? 

Partiamo allora con il guardare in faccia la nostra ignoranza sui sistemi complessi a cui un’azienda deve essere assimilata, sia essa piccola e radicata in un territorio, oppure grande e globalizzata.

E quando si cercano di governare i sistemi complessi il trucco è quello di “ lavorare duro per ripulire il tuo pensiero e renderlo semplice” come ripeteva spesso Steve Jobs.

Non è facile integrare la semplicità nella vita moderna o nelle aziende: soprattutto perché “è contraria allo spirito di una certa categoria di individui che inseguono la sofisticazione per giustificare la propria professione” ( tratto da “Antifragile” di Nassim Thaleb).

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Skin in the game


Devo fare una breve premessa all’articolo che state per leggere. Capirete alla fine perché voglio precisare che fin dalle mie prime esperienze in azienda mi sono occupato di sviluppare progetti di innovazione siano esse tecnologiche, organizzative o di design di prodotti. E questo nei più svariati settori: nelle banche (ho sviluppato l’internet banking e il call banking in banca Carige nei primi anni 2000), nel B2B, nell’ hotellerie, nel farmaceutico (con una piattaforma basata sulle community digitali per l’aderenza alla terapia di pazienti allergici e per pazienti con gravi disfunzioni cardiache), nella formazione, nel mondo del società di calcio di serie A e nel mondo retail.

In breve: da sempre studio, implemento e amo l’innovazione: solo quando ha un senso, quando può dare risultati per far vivere meglio la gente e far prosperare le aziende.

Detto questo, andiamo!

Dare priorità alle trasformazioni tecnologiche per vincere. Questo è il titolo di un articolo, datato marzo 2022, della rivista McKinsey Digital a cui sono regolarmente abbonato. Nello stesso numero compare un’altro titolo: “Sette lezioni su come la trasformazione digitale può apportare valore alle aziende”.

McKinsey è sicuramente la più grande ed importante società di consulenza strategica a livello mondiale: solo per fare un esempio casalingo, è quella a cui si è rivolto Draghi per sviluppare il PNRR da presentare alla Commissione Europea per la ripresa dopo la pandemia.

Tutti quindi sono d’accordo (lo dice McKinsey!!) nel sostenere che per vincere, tutte le aziende, non solo quelle grandi e con mercati internazionali, devono sviluppare al loro interno la trasformazione digitale (che significa??).

Hai compreso caro imprenditore? Dico a te che ogni giorno lavori per mandare avanti la tua azienda familiare assieme ai tuoi 50 operai e che produci profitti sufficienti a far vivere le famiglie dei tuoi dipendenti in maniera più che decorosa da almeno un trentennio e con piena soddisfazione dei tuoi clienti. Hai capito che senza trasformazione digitale non vinci? Rimani ai margini del VERO successo: fatturati a 8 zeri, migliaia di dipendenti, autista per te e i tuoi dirigenti, conferenze stampa e interviste alla TV, magari qualche bel debito con banche e investitori, giusto per non farci mancare niente!

C’è un modo di dire in inglese che mi piace tanto, anche per come suona quando lo dici: “Skin in the game”. L’ho letto per la prima volta in un libro di Nicholas Taleb che come titolo ha “Rischiare grosso” e sottotitolo: “Metterci la faccia nella vita di tutti i giorni”. Giocarsi la pelle, in sostanza, la propria pelle e non quella degli altri, quando si fanno delle azioni o si prendono decisioni o si consiglia qualcuno, sfruttando la propria autorevolezza.

Dovrebbe essere una regola valida per tutti, anche per coloro i quali non riescono a distinguere tra teoria e pratica, tra sapere apparente e competenze costruite sul campo, ogni giorno, rischiando la propria pelle.

Questo principio l’ho fatto mio nella vita personale, ma anche e soprattutto in quella professionale, iniziata quando avevo 20 anni; adesso ne ho 62, fate voi un pò di conti.

Anche se buona parte del mio tempo lavorativo l’ho trascorso come manager a contratto e quindi come lavoratore autonomo, non ho mai fatto quello che dà consigli su cosa e come fare e poi, dopo una bella e accattivante presentazione in Power Point, salutare e andar via senza condividere la responsabilità degli eventi conseguenti ai suggerimenti che qualcuno, ascoltandoti, ha messo in pratica.

In tutti questi anni ho sbagliato diverse volte, ho fallito con una mia azienda, a volte non ho dato retta a chi ne sapeva più di me e sapeva soprattutto come fare meglio di me. Ma ora so riconoscere le ca***te e chi le dice solo per proprio vantaggio, senza rischiare niente se le cose non vanno per il verso giusto.

Per questo ho grade stima e rispetto per quegli imprenditori che fanno il loro semplice mestiere: trovare clienti a cui onestamente vendere i propri prodotti, non rincorrendo falsi miti ed evitando di ammalarsi della malattia del più. Scusateli se non sanno chi è McKinsey e non sanno sfruttare le tecniche AGILE e magari non sanno nemmeno cosa è la trasformazione digitale. Ma è sicuro che domani apriranno i cancelli delle loro fabbriche e decideranno i progetti di sviluppo senza chiedere il permesso al venture capitalist di turno o alla banca Pinco Pallo.

Si può arrivare lontano anche con poco.

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