Biology: a model based on simplicity and effectiveness


Biology is the Ultimate Business Model

The pandemic has reminded us that we’re biological creatures, and the ongoing climate emergency requires a massive update to our ways of thinking and living. The good news is, biology has, along with technical innovations, a lot to teach us about how to think, live and do business. These insights, combined with direction and focus, have the potential to do worlds of good.

The Economist stated that “biological information and its implementation are inseparable. Life runs not on software and hardware, but in allware.” What this means is that the conception and execution of a biological program is one and the same. This is profound as our dominant guiding metaphor over the last decade has been one where these concepts are separate: computers.

We’ve been making technology, businesses, and relationships as if parts of the system are siloed entities and don’t reverberate past a small sphere. This mentality makes it easy to skirt responsibility for things that happen outside your illusory border. We think a shift is in order.

Biology provides a model for balance. Human history post-industrial revolution is a story of unbelievable progress. We’ve lifted billions out of poverty, put a man on the moon and connected the world. However, that story comes with a footnote, or rather, a footprint: CO2 emissions and the climate emergency. The rebranding of human nature as something above nature itself has left us with a blindspot, and thus in our race for linear progress we’ve forgotten about circular equilibrium. Nature and biology not only provide us with a model for how a world in balance might look, but also gives us the tools to make that happen.

Biology teaches us how to adapt.

In a recent appearance the biologist Manolis Kellis outlined how biology’s messiness allows it to adapt, how it is precisely biology’s imperfections that allow it to gain from disorder.

For business, this doesn’t mean creating chaos, but building systems and narratives that can grow and live in harmony with an ever changing world. We’re stepping now into an age of adaptation, where those who can balance a unified vision (a skill of humans), contextual awareness (allware), and an ability to adapt (and evolve) will ultimately thrive.

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Forse lo so, ho capito.


Cosa è l’avventura? L’abbandono inerme alle potenze e ai capricci del mondo, che possono colmarci di doni e annientarci nel giro di un unico rovescio. (Ian McEwan)

Niente resilienza per favore, non conta nulla. Solo dynamis: la forza che libera e non ci chiude, ci lascia aperti a infinite opportunità e a infiniti rischi.

“Dein exienai” bisogna uscire: lo diceva Milziade agli ateniesi incitandoli ad andare fuori dalle mura della città per affrontare il nemico (i persiani di Dario) immensamente sovrastante in termini di uomini, non aspettandolo dentro le mura: lì avrebbero fatto la fine delle altre città greche che erano state distrutte dall’impero persiano, con gli uomini ridotti a schiavi e le donne e i bambini uccisi. Così gli ateniesi sconfissero Dario il re dei persiani: fuori dalle loro mura.

Sarebbe bello dare ancora l’occasione ai nostri bambini di poter giocare e ballare assieme fuori, nelle strade. Per assicurare loro questo, noi dobbiamo uscire, andare fuori le mura, per riprenderci quello che ci hanno rubato o a cui abbiamo volontariamente rinunciato.

Primo: aprirsi alla varietà del mondo.

Secondo: uscire dalla unica dinamica che ormai conosciamo e utilizziamo sempre: la competizione forsennata derivante da una idea bacata di rapporto con gli altri.

Terzo: limare il nostro cervello con quello degli altri, sempre in ogni occasione con pazienza, come fosse un libro da cui imparare, non una semplice occasione per prevalere e utilizzare gli altri.

Quarto: chiamare le cose con il loro nome. Un conflitto è un conflitto e una guerra è una guerra, smettiamola di pararci il culo con la SOLIDARIETA’ e smettiamo, con la nostra solidarietà, di prendere per il culo gli altri e noi stessi. La solidarietà che pratichiamo è in sostanza una forma di viltà che lascia l’altro lì dove è, con un pugno di farina in mano e le armi da noi donate per difendersi, ma non costruiamo nessuna relazione con loro che ci avvicini realmente come essere umani a prenderci cura l’un l’altro.

Quinto: esistono realtà che sfuggono alle nostre misurazioni. Finiamola con questa ossessione per i dati e i numeri. Scomponiamo sistemi complessi, come il nostro corpo, in scatole separate (dia-gnosi) e cerchiamo di proporre soluzioni guardando dentro la singola scatola. Ma il mondo, il nostro corpo, la natura non possono essere comprese così. Ci perdiamo proprio la comprensione, sbandierando come imbecilli i supposti successi della tecnologia numerica: questa lasciamola per portare un razzo su Marte.

Capiremmo di più danzando come fanno i bambini del video: non c’è bisogno di tecnologia per vivere degnamente, solo di avventura!

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Lavorare duro per renderlo semplice….e umano.


Non credo sia un buon affare affrontare i problemi investendo di più nella loro soluzione.

Se ascoltiamo il buon senso comune di moda oggi, questo sembra assolutamente controintuitivo rispetto a quello che ci insegnano a scuola, nelle università o stando alle decisioni che molti manager e imprenditori prendono in tempi difficili in cui i problemi sembrano moltiplicarsi in maniera virale.

Quanto più è complesso il problema e più aggressivo il panorama concorrenziale e più risorse vengono investite dai competitor  e più tecnologia viene proposta per migliorare la situazione, tanto più allora risultano come conseguenza: più complicazioni, più spese, più procedure, più personale, più debiti, più responsabilità da mettere in campo per cercare di stare al passo e continuare a svilupparsi e a crescere. Senza sviluppo né crescita continua, ci dicono tutti, pare non ci sia alcuna possibilità di sopravvivenza.

“Il più” è in genere la risposta più facile e semplice, instillata nella nostra mente sin da bambini. Vi ricordate? La maestra chiama i vostri genitori e, visto che i voti sono bassi, l’UNICA soluzione proposta è quella che il ragazzo deve studiare di più. Punto. 

Molte volte, però, “il più” non è né la soluzione più efficace (non raggiunge gli obiettivi voluti), né quella più efficiente (necessita una quantità di risorse eccessive), né particolarmente innovativa (lo fanno tutti, o quasi).

Perché allora ci ostiniamo a rendere la vita come la corsa dei criceti nella ruota: stancante, inutile, stressante, senza significato, direi senza umanità e spesso con risultati economici discutibili?

Lo ripeto, non sono fautore dell’anti-crescita o anti-profitto.

Mi interessa perché, avendo avuto a che fare con il mondo delle aziende da quasi 40 anni, guardo i comportamenti che la nostra “evoluta” cultura e società ci spinge ogni giorno ad adottare e  i risultati non proprio entusiasmanti che ne conseguono, e allora mi chiedo se non sia  arrivato il momento di mettere in discussione alcuni modi di agire e pensare da robot e domandarsi se esiste un modo migliore e più brillante di andare avanti.

Un modo più brillante e meno alienante di condurre un’ azienda o la nostra vita. Un modo che rifiuti il pensiero unico sul significato del successo professionale o personale come ce lo raccontano le scuole di business o la cultura dominante.

E se per prosperare e vivere bene non fosse sempre necessario avere alla base una mentalità tecnologica o da start up ? Anche se automazione e connettività entro certi limiti possono aiutarci sicuramente.

E se, per puro caso, l’innovazione utile, quella che migliora la vita degli altri, non fosse un processo lineare ed improvviso come una luce che si accende all’improvviso nel cervello di un giovane “startapparo”, ma piuttosto il frutto di una profonda  conoscenza delle regole del gioco dello specifico settore, trovando poi il sistema di infrangere e sovvertire quelle stesse regole e accettando il caso e il caos degli incontri fortuiti con eventi e persone? Innovazione= conoscenza+caso

Per favore non credete alle ca***te che raccontano sulle start up: basterebbe conoscere alcuni fatti per non cascarci:

– Il modello delle start up è nato nella Silicon Valley intorno agli anni ’80, nel settore specifico dello sviluppo del software. Non è detto che questo modello funzioni in altri contesti economici, territoriali e sociali. Infatti oggi…

1 – Il 90% delle start up fallisce.

2- La causa principale del fallimento è: non capiscono il mercato in cui vogliono entrare!

3 – Un’altra importante causa di fallimento è la mancanza di cash e/o eccessivo debito che non riescono a ripagare con gli esigui profitti conseguiti (la mania di partire in grande da subito con i soldi dei venture capitalist e la “malattia del più” che gonfia le spese generali).

Il bello è che ce lo propongono come modello virtuoso, consigliando di inglobarlo dentro le aziende per velocizzare il processo innovativo. Non funziona: le aziende sono progettate per sopravvivere evolvendosi, non per crescere e innovare continuamente. 

E’ il processo di evoluzione progressiva e sostenibile che permette alle aziende di adattarsi efficacemente agli eventi che la realtà del territorio prospetta e non certo la crescita a 360 gradi o il così detto progresso continuo.

L’azienda è un sistema complesso, ma contrariamente a quello che molti pensano, un sistema complesso non ha necessità di strutture e procedure complesse. Anzi più semplice è, meglio è. Aggiungendo a dismisura tecnologie, strutture, team di progetto, prodotti, processi, sistemi di controllo e via di seguito, complicando insomma, non si fa altro che innescare reazioni a catena che moltiplicano gli effetti inaspettati. E poiché questi effetti sono difficili appunto da prevedere, la reazione istintiva (ma venduta come razionale e ineludubile) porta i manager e l’imprenditore ad investire ancora più risorse in sistemi previsionali, in big data, in tecnologie digitali, in analisti e ricercatori di mercato, innescando un circolo vizioso che porta spesso alla rovina dei profitti e mette a rischio la sopravvivenza dell’azienda.

Il risultato di tale atteggiamento? Questo: 

negli anni ’70 la permanenza media di un’impresa all’interno dell’indice S&P era di circa 25-30 anni, oggi in media un’azienda può aspettarsi di rimanere in media nell’indice delle 500 aziende americane a maggiore capitalizzazione per circa 15 anni.

Alcune è vero, proprio perché ancora profittevoli, scompaiono dall’S&P 500 in quanto acquisite da altre aziende. Ma sono poche.

E le altre? Il mainstream dei venditori di falsi miti dice che è colpa del fatto che non sanno innovare abbastanza. 

Ma come, le aziende che stanno nel gota mondiale per capitalizzazione non sanno innovare?

E allora delle due l’una: o non ci intendiamo sul significato di innovazione e sul come innovare oppure l’innovazione tecnologica, se mal implementata, per se è distruttiva!

E distruggere risorse, sprecare talento, licenziare, produrre crack finanziari non ha niente a che vedere con il progresso o la presunta e ignorante idea che bisogna fallire tanto e presto per avere successo! Questo sarebbe accettabile solo nel caso in cui chi fallisce non rovina anche altri senza pagarne le conseguenze.

Skin in the game, ricordate?

Quindi? 

Partiamo allora con il guardare in faccia la nostra ignoranza sui sistemi complessi a cui un’azienda deve essere assimilata, sia essa piccola e radicata in un territorio, oppure grande e globalizzata.

E quando si cercano di governare i sistemi complessi il trucco è quello di “ lavorare duro per ripulire il tuo pensiero e renderlo semplice” come ripeteva spesso Steve Jobs.

Non è facile integrare la semplicità nella vita moderna o nelle aziende: soprattutto perché “è contraria allo spirito di una certa categoria di individui che inseguono la sofisticazione per giustificare la propria professione” ( tratto da “Antifragile” di Nassim Thaleb).

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Skin in the game


Devo fare una breve premessa all’articolo che state per leggere. Capirete alla fine perché voglio precisare che fin dalle mie prime esperienze in azienda mi sono occupato di sviluppare progetti di innovazione siano esse tecnologiche, organizzative o di design di prodotti. E questo nei più svariati settori: nelle banche (ho sviluppato l’internet banking e il call banking in banca Carige nei primi anni 2000), nel B2B, nell’ hotellerie, nel farmaceutico (con una piattaforma basata sulle community digitali per l’aderenza alla terapia di pazienti allergici e per pazienti con gravi disfunzioni cardiache), nella formazione, nel mondo del società di calcio di serie A e nel mondo retail.

In breve: da sempre studio, implemento e amo l’innovazione: solo quando ha un senso, quando può dare risultati per far vivere meglio la gente e far prosperare le aziende.

Detto questo, andiamo!

Dare priorità alle trasformazioni tecnologiche per vincere. Questo è il titolo di un articolo, datato marzo 2022, della rivista McKinsey Digital a cui sono regolarmente abbonato. Nello stesso numero compare un’altro titolo: “Sette lezioni su come la trasformazione digitale può apportare valore alle aziende”.

McKinsey è sicuramente la più grande ed importante società di consulenza strategica a livello mondiale: solo per fare un esempio casalingo, è quella a cui si è rivolto Draghi per sviluppare il PNRR da presentare alla Commissione Europea per la ripresa dopo la pandemia.

Tutti quindi sono d’accordo (lo dice McKinsey!!) nel sostenere che per vincere, tutte le aziende, non solo quelle grandi e con mercati internazionali, devono sviluppare al loro interno la trasformazione digitale (che significa??).

Hai compreso caro imprenditore? Dico a te che ogni giorno lavori per mandare avanti la tua azienda familiare assieme ai tuoi 50 operai e che produci profitti sufficienti a far vivere le famiglie dei tuoi dipendenti in maniera più che decorosa da almeno un trentennio e con piena soddisfazione dei tuoi clienti. Hai capito che senza trasformazione digitale non vinci? Rimani ai margini del VERO successo: fatturati a 8 zeri, migliaia di dipendenti, autista per te e i tuoi dirigenti, conferenze stampa e interviste alla TV, magari qualche bel debito con banche e investitori, giusto per non farci mancare niente!

C’è un modo di dire in inglese che mi piace tanto, anche per come suona quando lo dici: “Skin in the game”. L’ho letto per la prima volta in un libro di Nicholas Taleb che come titolo ha “Rischiare grosso” e sottotitolo: “Metterci la faccia nella vita di tutti i giorni”. Giocarsi la pelle, in sostanza, la propria pelle e non quella degli altri, quando si fanno delle azioni o si prendono decisioni o si consiglia qualcuno, sfruttando la propria autorevolezza.

Dovrebbe essere una regola valida per tutti, anche per coloro i quali non riescono a distinguere tra teoria e pratica, tra sapere apparente e competenze costruite sul campo, ogni giorno, rischiando la propria pelle.

Questo principio l’ho fatto mio nella vita personale, ma anche e soprattutto in quella professionale, iniziata quando avevo 20 anni; adesso ne ho 62, fate voi un pò di conti.

Anche se buona parte del mio tempo lavorativo l’ho trascorso come manager a contratto e quindi come lavoratore autonomo, non ho mai fatto quello che dà consigli su cosa e come fare e poi, dopo una bella e accattivante presentazione in Power Point, salutare e andar via senza condividere la responsabilità degli eventi conseguenti ai suggerimenti che qualcuno, ascoltandoti, ha messo in pratica.

In tutti questi anni ho sbagliato diverse volte, ho fallito con una mia azienda, a volte non ho dato retta a chi ne sapeva più di me e sapeva soprattutto come fare meglio di me. Ma ora so riconoscere le ca***te e chi le dice solo per proprio vantaggio, senza rischiare niente se le cose non vanno per il verso giusto.

Per questo ho grade stima e rispetto per quegli imprenditori che fanno il loro semplice mestiere: trovare clienti a cui onestamente vendere i propri prodotti, non rincorrendo falsi miti ed evitando di ammalarsi della malattia del più. Scusateli se non sanno chi è McKinsey e non sanno sfruttare le tecniche AGILE e magari non sanno nemmeno cosa è la trasformazione digitale. Ma è sicuro che domani apriranno i cancelli delle loro fabbriche e decideranno i progetti di sviluppo senza chiedere il permesso al venture capitalist di turno o alla banca Pinco Pallo.

Si può arrivare lontano anche con poco.

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54 pastelli a colori


Sono un pazzo. Mi permetto di asserire che crescere con la finalità di crescere continuamente è una follia: per un’azienda a qualsiasi settore appartenga, per un ospedale a qualsiasi paziente voglia dedicarsi, per uno studio professionale per qualsiasi servizio voglia offrire, per un artigiano esperto costruttore di un qualsiasi manufatto, per una orchestra sinfonica di 50 elementi che produce concerti. Perché, in questo caso, magari non produrne di ancora migliori con 130 professori d’orchestra? Perché no?

Precisiamo: non sono fautore della cosiddetta “decrescita felice”, ma sono allergico, profondamente allergico, al pensiero unico dettato dai venditori di falsi miti. Miti che diventano verità assolute, dettate dal mainstream e dai guru del marketing, dell’innovazione, delle tecnologie digitali, dei big data, delle start up, della crescita ad oltranza come principio basilare per chiunque e sempre.

Mi ricordo che da bambino alle elementari guardavo stupito un mio compagno di classe, si chiamava Gianluca (ometto il cognome, anche perché non lo ricordo più), che ogni anno, dalla prima elementare sino alla quinta, veniva con un astuccio sempre con più matite colorate. Il primo anno solo 12, il secondo 24, e così via sino alla quinta in cui si presentò il primo giorno di scuola con un “portapacchi” con ben 54 pastelli a colori: c’era anche il colore verde pisello chiarissimo.

Ho visto recentemente, non scherzo, in un autogrill vicino Parma, un set di ben 124 pennarelli a spirito!

Questa è la malattia del più che si fonda nella compulsione all’aggiungere, all’aumentare, all’addizionare, quasi sempre in quantità, raramente in qualità.

Mi domando e vi domando: pensate che questo modo di procedere per crescita compulsiva sia sensato? O sia veramente efficace per chi fa business, o sia sostenibile per chi svolge attività come dipendente o in proprio e lavora sempre di più, per cercare di guadagnare sempre di più, per comprare sempre di più, vivendo in definitiva sempre di meno?

Esiste una cura efficace alla malattia del più che produce competizione senza limiti, scarsi risultati in termini di profitto, pressioni psicologiche e paure di non farcela impedendoci di dormire la notte, rovinando le relazioni con i nostri figli, con i nostri clienti, con i nostri colleghi d’ufficio?

Possiamo costruire una “exit strategy” non per mollare tutto e andare a vivere in una isola dei Caraibi, ma per riappropriarci del senso vero delle cose che facciamo con gli altri, allontanandoci per quanto possibile dai quei miti che non sono più utili alla nostra vita, alle nostre attività economiche e all’ evoluzione come esseri umani.

Questo vuole essere uno spazio di condivisione non di idee (ce ne sono già troppe in giro) ma di azioni fattibili, di scelte possibili, di progetti eseguibili. Che diano risultati già da domani, guardando però lontano, molto lontano.

Alla prossima.

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Every great story start with a smile in your eyes


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Insieme


san paul de vence

Tutte le famiglie felici sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.

Con questa frase, che a me sembra, nella sua falsa innocenza,  la salva di un plotone di esecuzione, Tolstoj inizia il suo romanzo più famoso: Anna Karenina.

L’haiku è una poesia di antica origine giapponese che mira a esprimere un concetto o un’emozione in pochi termini: ecco, l’inizio di Anna Karenina ha tutta la forza e la capacità di sintetizzare verità, concetti, significati, emozioni in poche sillabe come un haiku giapponese del XVII secolo. Solo che gli haiku in genere sono leggeri come pioggia d’estate e ci lasciano liberi di dare una nostra lettura personale del brevissimo componimento poetico per poterne trarre una “lezione di vita”.

Tutto molto differente dalle intenzioni di Tolstoj che con quella frase:”Tutte le famiglie…” non dà alcuno scampo a interpretazioni che non siano quelle che lui dimostrerà nel corso del suo lungo romanzo.

Va bene. E quindi?

E quindi, siccome sono uno stupido rompiscatole, mi permetto non solo di interpretare la frase di Tolstoj a piacere mio, ma addirittura ne inverto i termini in questo modo:

“Tutte le famiglie infelici sono simili tra loro, ogni famiglia felice è felice a  modo suo”.

E che cambia, mi direte voi?

Cambia eccome e per provarlo vi racconto la storia di una famiglia felice, che felice è a modo suo.

Ma prima vorrei che faceste uno sforzo per accogliere la storia vera che vi riporto brevemente in questo blog, tratta da una intervista fatta da un giornalista di Repubblica, senza subito andare alle evidenti eccezioni che renderebbero il caso di questa famiglia con 11 figli solo un caso “da baraccone”, curioso ma non replicabile nella nostra realtà di Cittadini Tecnologicamente Avanzati&Smarriti.

Ciò che mi ha colpito non è tanto il numero di figli, oggi seppur assolutamente eccezionale, quanto la filosofia di vita che c’è dietro questo vivere immersi nella natura ed i principi e valori che proprio questa immersione nella terra riesce a esaltare e conservare come preziosi fiori di montagna.

I Mitter sorridono sempre e non hanno paura. Sveglia alle 5, luce spenta a mezzanotte. Vivono e lavorano in un maso sospeso tra le stupende montagne dell’Alto Adige, nei pascoli di Eggernof a 1.300 metri di quota. Mangiano grazie a 40 mucche e ai prati che riescono a falciare. Ogni bambino (ad oggi 11) quando nasce riceve in dono dai suoi genitori un vitello che dovrà curare come fosse una sua creatura. Non hanno dubbi i Mitter: più che parlare serve fare, dicono: doverti curare subito di qualcuno che non sei tu abitua alla responsabilità e dà fiducia.

Papà Artur, 47 anni, allevatore da quando ne aveva 5: “E’ l’amore per i bimbi, il piacere di assistere al prodigio della vita in tutte le sue manifestazioni ed aiutare i figli a farcela: questo è. Possediamo l’essenziale, ma non ci manca niente e nessuno di noi è solo”. E continua: “ Non devo trovare lavoro. Fuori dal maso ci sono prati e boschi, gli animali e gli orti. Comanda solo la natura”. In sostanza gli amici sono le sorelle e i fratelli per chi vive in queste zone. Fare subito la propria parte in casa è ovvio: non c’è tempo per la tv, i videogiochi non esistono. Mai fatto un viaggio, mai un giorno via di casa: le bestie bisogna curarle 365 giorni l’anno, mai lasciato Eggernof.

Eppure siamo felici e siamo tutt’altro che emarginati dal mondo, dice mamma Elia 46 anni. Amiamo i bambini e li abbiamo fatti senza pensare troppo. A chi rinuncia ai figli consiglio di non restare prigioniero della ragione. Elia conclude dicendo però: “ Se uno Stato non sostiene prima di tutto la vita delle persone la sua esistenza perde significato”.

Bene, questa è la famiglia Mitterer.  Mi direte che è una bella favola, ma solo una favola appunto.

Io sono convinto che invece è solo questione di scelte che si fanno e di condizioni esterne che permettono di rendere possibili queste favole. Per esempio l’ Alto Adige ha un welfare di tipo scandinavo: assegno mensile per ogni bambino fino a 3 anni, indennità di maternità, sostegno scolastico e per il trasporto, agevolazioni per la casa e per la spesa. A conti fatti I Mitterer ricevono 740 euro al mese!

Scelte comunque che necessitano rinunce, ma a che cosa esattamente?

Se quando mi alzo la mattina preferisco indossare il mio orologio finto Cartier e rompermi il collo con la mia BMW serie 1 di seconda mano per correre al lavoro che mi stressa da morire e spedire i figli a scuola ingurgitando una merendina Ferrero, allora ancora una volta è questione di scelte e va bene così.

Ci hanno detto che se non compriamo e consumiamo l’economia rimane in crisi e rischiamo di perdere il lavoro e non possiamo pagare il mutuo della casa e le rate della BMW.

Siamo ratti ossessionati dalla corsa su una ruota che altri fanno girare per il loro profitto e la loro convenienza e noi continuiamo a credere a queste favole: queste si favole!!

Ma allora, se è questo che ci siamo rassegnati a scegliere, sopportiamo con stoica pazienza le nostre paure, il non senso dei nostri giorni, la ricerca spasmodica di chi può elemosinarci un lavoro, i nostri ragazzi che vanno via altrove o rimangono per spendere le loro giornate in un call center e li vediamo con gli occhi spenti che vagano cercando un futuro che noi abbiamo saputo sporcare così tanto da renderlo invivibile: tra una montagna di debiti e un’aria  così mefitica che a passeggiare nelle nostre città ci viene da vomitare.

La vita è una musica che va suonata insieme, il nostro individualismo è invece il declino e la morte, il nostro pensare solo a noi stessi ci rende disumani.

Ogni giorno dovrebbe essere una rinascita e non una mortale paura: la musica del vento tra le montagne o sulla riva del mare potrebbe salvarci.

Proviamoci assieme.

Amen.

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Una certa idea di destino


Capitolo III

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Il pomeriggio di un fine settimana di metà settembre, nel profumo di mare, quello intenso che le alghe impreziosiscono con note esotiche che rapiscono i sensi,  Vincenzo risorse da un sonno profondo che lo aveva sorpreso poco dopo aver ancorato il gozzo in una baia a ridosso di un promontorio che cadeva a picco sul mare di Capri.

Era caldo e, quando è caldo, l’aria umida pesa sulle cose e sugli umori, li bagna e li appiccica, immergendo il tutto in un chiarore indistinto che sa di bianco latte.

Spesso a queste latitudini tali condizioni del tempo preludono all’arrivo nel giro di poche ore di venti che portano piogge e temporali: per questo Elisa era un pò preoccupata, non aveva voglia di trovarsi a dover fronteggiare mare grosso con quella barca.

In mare ti senti sempre impreparato perché non puoi mai sapere che evoluzioni prende il moto delle onde ed il vento. Anche se sei esperto e hai navigato per anni senti una mancanza, una incompletezza che ti lascia esposto al caso e agli eventi imprevedibili.

Sistemi le vele, stringi i nodi delle cime, orienti la prua contro vento, calcoli una rotta, guardi l’orizzonte, interpreti il moto delle nuvole, ma non basta: qualcosa, più di qualcosa, ti sfugge e ti rende in fondo un pò inquieto.

E allora guardi gli strumenti di bordo, ti colleghi su internet con il meteomar per avere le ultime previsioni, ascolti il bollettino emesso dalla capitaneria del porto più vicino: in sostanza ti aggrappi alle tue risorse razionali, alla ragione garantita dalla tecnica a tua disposizione, ai numeri e ai dati, insomma.

Vincenzo è un marinaio moderno, si fida del potere calcolante della tecnica, come tutti ormai nel nostro mondo tecnologico in cui la natura è strumento che va utilizzato ai nostri fini: la natura come risorsa da sfruttare ed usare.

Ne aveva parlato più volte con Elisa di come il progresso tecnologico avesse portato al predominio del concetto di utilitarismo: le cose e anche le persone hanno valore se e solo se sono utili a qualcosa o producono vantaggi economici. La ragione strumentale ha il predominio su qualsiasi altro pensiero o sentimento.

L’imponderabile, il caso, il pensiero irrazionale, i miti, le stelle e con esse il sentimento di mistero ed il senso che hanno gli eventi quando noi non ci separiamo dal mondo guardandolo solo come risorsa, sono messi in un angolo e ci  aggrappiamo unicamente alla falsa sicurezza di una tecnologia che deve per forza funzionare.

La barca invece può affondare, il mare può avere il sopravvento e la sapienza e l’esperienza a volte non servono a salvarci o a redimerci dagli errori e soprattutto non è la tecnologia che  può promuovere un orizzonte di senso.

Noi uomini occidentali ormai da qualche millennio viviamo nella certezza scritta a chiare lettere nei primi versetti della bibbia: all’uomo è stata dato da Dio il potere di utilizzare la natura a suo piacimento, interpretando se stesso come espressione del dominio sulle cose, sul mondo.

Su queste basi così compenetrate nel nostro intimo da non essere più solo credenze religiose, ma ragioni culturali diffuse e ritenute verità assoluta, si annida e prospera “l’ospite inquietante” autore di quel senso costante di tristezza e di inquietudine che spesso ci prende e come bianco latte si appiccica al nostro animo.

Vincenzo ricordava perfettamente il sogno che aveva fatto poco prima durante il sonno profondo da cui si era svegliato:aveva visto Don Chisciotte che… “ripulite le armi, battezzato il suo amato ronzino e dato a se stesso la cresima, si era convinto che non gli mancava  nient’altro se non cercare una dama di cui innamorarsi: perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza né foglie né frutti o come un corpo senz’anima”

Chissà che il sogno e il folle Don Chisciotte non possano dare una risposta plausibile  all’ospite inquietante, disse Elisa ammiccando con quel suo sorriso che sempre riusciva a sciogliere i pensieri confusi e contorti di Vincenzo.

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Una certa idea di destino


Cap. II

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La cosa non fu immediata come sperava. Eppure Elisa glielo aveva detto: ti devi preparare un minimo o forse anche un pò di più. Ed in effetti riflettendoci era proprio successo questo: il tempo che si sarebbe chiuso con l’evento finale era iniziato non quando era cominciata la sua caduta, ma molto prima.

Ricordava di una gita in barca con il suo gozzo in una giornata di vento di maestrale che gonfiava pericolosamente la vela latina ma che sapienti mani avevano per fortuna saputo cucire con filo di seta resistentissima. Nonostante l’attenzione dovuta nella conduzione della barca a causa del mare forte, gli occhi di Vincenzo erano concentrati sulla scia prodotta dalla chiglia e dai movimenti dell’acqua che accarezzava le murate dello scafo.

Guardava in maniera ipnotica la fenditura che la barca provocava sulla superficie dell’acqua e come questa poco dopo si richiudeva e  rimaneva, in lontananza, solo una piccola increspatura, un leggero solco che poi scompariva lasciando la superficie dell’acqua dietro di lui intatta come senza memoria del suo pur recente  passaggio. Sembrava che di lui, della sua barca e del suo andare per quel mare non restasse alcuna traccia, che il mare non fosse capace di registrare seppur un minimo, impercettibile segno del suo passaggio.

Questa evidenza lo aveva messo, lo ricordava benissimo, in uno stato di ansia che la sera, ritornato a casa, si era addirittura trasformato in una profonda quanto inaspettata sensazione di disperazione.

Seduto a tavola in silenzio, di fronte Elisa,  gli occhi bassi sul piatto, come se lì dentro potesse trovare risposta all’angoscia provocata dagli strani pensieri che lo avevano assalito in barca, restava immobile come quando si presagisce l’arrivo di un uragano contro cui ormai non si può più fare nulla.

Raccontami come è andata la giornata, disse Elisa cercando il suo sguardo liquido come il brodo della minestra che gli aveva preparato.

Vincenzo non riuscì a parlare se non quando, disteso sul divano, con la testa poggiata sulle gambe di Lei, aveva accennato delle sue strane riflessioni in barca quella mattina. Lo fece con una certa ritrosia: gli sembravano pensieri stupidi, senza senso e ancor di più  tale era la disperazione che lo aveva assalito, senza dubbio esagerata ai suoi occhi se non folle.

Per fortuna le donne hanno la capacità di non spaventarsi di fronte alla follia: l’accolgono quotidianamente come presupposto essenziale di una vita che è intrisa di ciò che non è razionale e ne è motore indispensabile.

Ma conoscendo Vincenzo come esponente della specie maschile, Elisa aveva risposto con alcune argomentazioni comprensibili e accettabili dal suo cervello che lui considerava unicamente capace di razionalità.

Vincenzo ascolta, aveva detto, prova a ribaltare la tua visione delle cose: del tuo passaggio su questa terra sono molto pochi a curarsene. Non è poi così importante, anzi non lo è affatto.

Tu un giorno cadrai e alla fine di quella caduta ci sarà il nulla. Niente speranza di un’altra vita, di una felicità eterna, nessun incontro con una entità che ti guarderà amorevolmente negli occhi dicendoti che sei salvo e che ti meriti di riposare in un paradiso. Non ti guadagnerai l’immortalità, né altre ricompense.

Per questo motivo non c’è nessun senso in quello che fai, che progetti o desideri: sai che alla fine della caduta qualsiasi senso verrà eliminato.

Quindi: nessun senso, niente speranze e così  per fortuna, è questa la bella notizia, niente di-sperazione.

Rimane solo questo intervallo di tempo, che dalla natura ti è stato concesso di vivere, ed un sentiero da percorrere.

Tu lungo il cammino puoi diventare puntina di grammofono, sismografo, elettrocardiografo, sensore capace di auscultare le vibrazioni del mare che percorri e trasferire queste alla tua mente.

Non è il mare che tiene memoria di te, tu come singolo non conti nulla, ma tu come navigatore puoi diventare una meravigliosa macchina di pensieri: questi pensieri non scendono dal cielo ma salgono dalle acque da te attraversate e come tamburo si diffondono per la gioia di coloro che con te salgono sulla stessa barca.

La natura ti ha dotato di piedi e di cervello e non di radici e per questo nell’animo sarai sempre nomade e irrequieto: sei pastore e navigatore non sei contadino che rivendica il possesso dei terreni.

Il nomade, il marinaio non possiede spazi ma semplicemente li attraversa. Egli appartiene ad un altro mondo, il suo andare è l’antitesi dell’idea di possesso su cui si basa la moderna civiltà in cui abiti e di cui l’idea romantica dell’amore è testimonianza assoluta e distruttiva.

Tu hai piedi per camminare e mani per remare, punto.

Detta così la situazione è tragica?

Si.

Ma certo molto meglio della  disperazione e della depressione che invece annichilisce e ti lascia senza volontà di agire.

Così invece puoi lasciare spazio, senza il fardello delle speranze e degli auspici, ad una  interessante scoperta del tuo daimon, della tua essenza, del tuo talento, di ciò che sei.

Per l’amore che ti voglio ricordati della caduta inevitabile e nel frattempo cerca il tuo talento ma con misura e rispettando i giusti tempi, senza accelerare troppo.

Attraverso l’amore che io ti saprò dare, raccogli la fiducia di poter attraversare la discesa verso la parte di te più profonda e folle con la certezza che io ti tenderò la mano per farti risalire su, dopo che avrai scoperto la tua vera anima.

 

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Una certa idea di destino


Capitolo I

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Gli era venuta voglia di fermarsi: mentre cadeva.

Si era reso conto che stava precipitando solo quando le cose attorno a lui avevano cominciato a scomparire dal suo orizzonte visivo con una velocità inusuale. Non che fosse spaventato, aveva solo una strana sensazione di impellenza a togliersi il più rapidamente possibile dalla situazione in cui si trovava.

Aveva sempre avuto una precisa idea del destino, del suo, e comprendeva che quello che stava succedendo non coincideva con quello che aveva immaginato fosse giusto per lui, o quanto meno predestinato per lui.

In effetti non sopportava l’idea che le cose, in quel momento, stessero andando in maniera diversa da come le aveva pianificate: il destino che meritava era quello che aveva progettato, nient’altro, sia nei tempi che nei modi.

Di questo, qualche tempo addietro, ne aveva parlato con Elisa: di come lui avesse predisposto il percorso esatto che avrebbe fatto nella vita: “Il mio destino si realizzerà perché io lavorerò duro in quel senso, senza mai perdere l’obiettivo e tenendo sempre in vista la mia meta”, aveva detto con fredda determinazione.  Gli avevano fatto credere, sin da piccolo, che la volontà sposta montagne, che se concentri le tue energie ottieni quello che vuoi: certo bisogna essere cinici nei confronti degli altri e di se stessi, ma il fine giustifica i mezzi.

Le più grosse baggianate sono proposte alla gente sotto forma di motti o sentenze e frasi fatte: fatte da coloro che scambiano desideri e speranze con la realtà e si affidano al senso comune per navigare, senza verificare se quella rotta, indicata da altri, è buona per non andare a finire contro gli scogli. Di questo Elisa ne era convinta, ma quella volta  aveva evitato di controbattere: pensava fosse inutile. Troppo convinto lui di quello che diceva: sembrava un prete durante il sermone della domenica.

Come chi segue con una certa coerenza una religione non si fa tante domande sul perché e sul per come, evitando così di cadere nella rete delle incertezze che creano ansie, anche lui, come questi, evitava accuratamente il minimo dubbio su una certa idea di destino che sentiva invece perfettamente tagliata su misura per se. Diremmo anzi che questa idea di destino se l’era proprio ritagliata secondo gusti, preferenze e desideri su cui aveva per anni pensato, programmato, deciso e scelto.

Almeno a lui sembrava fosse successo proprio così: lui, il suo destino, lo aveva creato.

La caduta che stava sperimentando in quel momento lo aveva però trascinato su un sentiero sconosciuto, mai pensato prima, fuori totalmente dalle rotte da lui con cura disegnate e fin lì navigate. Eppure di navigazione se ne intendeva: marinaio nella mente con il mare nel cuore, sulla pelle sempre sale, tempeste e sole, aveva da sempre posseduto una barca: a vela, rigorosamente.

Aveva studiato per questo in un istituto nautico a Santa Marinella, rinomato per aver formato i migliori comandanti della marineria commerciale, quindi si era imbarcato appena sedicenne su un caicco come mozzo per una cruise line privata che portava a zonzo per il mare di Zanzibar ricchi vecchietti desiderosi di finte avventure, era diventato, poi, proprietario di un gozzo ligure comprato in un piccolo cantiere navale nell’isola di Sant’Antioco, aveva rimesso in ordine le vele -vela latina per la precisione- e il fasciame con l’aiuto di un mastro d’ascia dell’isola di Carloforte e,  definite sulla carta nautica le coordinate di navigazione, aveva portato il suo gozzo, con una traversata in solitario di soli due giorni, sulla costa amalfitana. Lì si era fermato per alcuni giorni a casa di amici della madre.

A Vincenzo, suo padre marinaio nell’animo e nella vita anche lui, sin da quand’era un piccolo scugnizzo di pochi anni, raccontava storie di pescatori e di gozzi a vela latina intrise di avventure che facevano rimanere con la bocca aperta quel piccolo babbeo del figlio, nelle notti di pioggia prima di addormentarsi: dopo poco inesorabilmente cadeva in un sonno sereno come solo un bambino può avere.

Fu proprio a causa di quei racconti serali che il piccolo cominciò a desiderare e a costruire per se, con l’immaginazione, il gozzo delle storie di suo padre, legandolo indissolubilmente a quella certa idea di destino che lo avrebbe accompagnato negli anni avvenire.

Certe volte i padri non si rendono conto quanto le storie che raccontano abbiano il potere di  trasformarsi magicamente in rovere per la chiglia e per le ordinate, in pino ligure per il fasciame, mogano per i banchi e faggio per i remi, costruendo così, nel tempo, senza accorgersene,  per i figli un gozzo a vela latina che può prendere il mare con una certa sicurezza, anche nel mare agitato da venti imprevisti, e disegnando per loro una bozza di idea di destino che li prenderà per tutta la vita e che di quei venti di tempesta se ne infischierà bellamente.

Gozzi e destino si incrociarono nella vita di Vincenzo che con il mare aveva sigillato un patto.

Se si vuole tentare l’avventura di conoscere un  uomo, e lo stesso vale per una donna, si dovrebbe avere l’abilità di riconoscere e avere la pazienza di studiare questi incroci che, nascosti nel profondo di ognuno, sono crocevia di infiniti destini e di scelte e di gesti d’amore e di battaglie: altrimenti incomprensibili ai più.

Sono come nodi alla maniera dei marinai: intrecciano idee, pensieri, immaginazioni, eventi, persone, in forme  a prima vista senza senso, seguendo linee orientate in direzioni diverse, per poi prendere percorsi  a prima vista senza sbocchi, ma poi invece si chiudono ad un certo punto, improvvisamente e magicamente, in un nodo che risolve il mistero, legando con forza e coerenza.

Non a caso i nodi sin dall’antichità non sono solo stati utili a legare cose, ma hanno sempre avuto significati religiosi e sacri, esoterici e superstiziosi. Insomma il nodo così come incrocia in modi straordinari e diversi le cime di un gozzo a vela è  anche, da sempre,  cardine, crocevia e  significato dei destini di un uomo.

E come per i nodi, tra questi destini,  ne scegliamo uno che rappresenta quella certa idea di vita  più coerente con ciò di cui abbiamo bisogno o ci sembra di aver bisogno. Esistono infatti diverse categorie di nodi a cui corrispondono funzioni (e filosofie di vita) diverse, molto diverse l’una dall’altra.  Si hanno così nodi di “arresto” o di “appesantimento”, nodi di “accorciamento”, nodi di “congiunzione” e nodi “d’avvolgimento”, ma anche nodi per il rimorchio.

Categoria a parte sono le “gasse”, nodi molto utilizzati dai marinai in quanto servono a soddisfare gran parte delle necessità. Sostanzialmente non ci si può considerare marinai se non si sa realizzare rapidamente una gassa d’amante: serve ad esempio per salvare un uomo in mare e ha inoltre il pregio di potersi sciogliere rapidamente, anche quando le cime sono bagnate.

Elisa un giorno gli aveva chiesto perché si chiamasse “d’amante”. Vincenzo le disse che non c’entrava niente l’amore, ma che “amante” è la manovra che serve per tirare su il pennone: Elisa scoppiò in una risata incontenibile, pensando che Vincenzo avesse fatto una battuta da bar dello sport.

Provocare le risate di Elisa faceva parte di quella certa idea di destino che Vincenzo aveva adottato da ormai tanto tempo.

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